lunedì 2 maggio 2011

Gramsci a Turi, di Antonio Tarantino, regia di Daniele Salvo

LA VITTIMA CHE DA SOLA SI SACRIFICA è SCOMODA ALL'ITALIA
di Fernanda Soana
Lo spettacolo Gramsci a Turi, diretto dal regista Daniele Salvo, è un lavoro complesso, a tratti suggestivo, in parte, a mio avviso, non risolto. Lo spettacolo tratta degli ultimi anni di prigionia prima della morte del noto intellettuale Antonio Gramsci, arrestato dalla polizia fascista nel 1926, processato da un Tribunale speciale e condannato a oltre 20 anni di carcere, morto per emorragia cerebrale nel ‘37 alla Clinica Quisisana di Roma. L’Italia chiude in una piccola scatola, non solo le ceneri di un uomo che la sofferenza, i torti subiti e la malattia avevano ridotto ad un corpicino esile non più capace di contenere la forza delle idee e la passione per una politica etica, ma soprattutto, per l’ennesima volta, le sue grandi e inaccettabili colpe. Gramsci aveva fotografato con grande obiettività la situazione politica italiana e le sue riflessioni giungono sino ai giorni nostri con un nitore e una chiarezza ai confini della preveggenza. Antonio Gramsci aveva individuato la crisi dello Stato-nazione, il distacco della dimensione spirituale da quella temporale che porterà lentamente ed inesorabilmente alla disintegrazione dello Stato moderno, aveva analizzato a fondo l’”americanismo”, sostenendo che l’America avrebbe di lì a poco costretto l’Europa a un “rivolgimento della propria assise economico-sociale troppo antiquata”, aveva percepito in pieno la trasformazione delle basi materiali della civiltà europea,prevedendo la formazione di una “nuova civiltà di cui saranno protagonisti i gruppi sociali delle nuove industrie”, aveva individuato l’irrimediabile crisi spirituale dell’uomo moderno, chiarendo i concetti e le differenze del “governare” e del “detenere il potere” nel nuovo Stato in disgregazione. (estratto dalle note di regia). Il testo di Tarantino tenta di suggerire al pubblico il mondo politico e carcerario poco raccomandabile in cui si muove spaesato Antontio Gramsci, attraverso una trentina di personaggi che si alternano in scene divise tra monologhi e dialoghi. Durante il calvario di Gramsci vediamo apparire oltre ai Capi di polizia, Direttori carcerari, Prigionieri politici e non, socialisti e anarchici, personaggi di spicco della politica del ventennio fascista: Mussolini, Togliatti, Sraffa e Bordiga. I personaggi si susseguono all’interno della struttura drammaturgica, seguendo forse (ma non è chiaro) la cronologia temporale della malattia di Gramsci. Portano i loro dubbi, le loro ragioni e soprattutto le oscure dinamiche che legano i partiti e le fazioni di destra, di centro e di sinistra dell’epoca. Tarantino sembra creare un parallelo tra il ventennio e i nostri giorni, gli schieramenti sono ambigui, i legami tra gli schieramenti molto più sotterranei e forti di quanto al popolo sia dato di vedere, i conflitti di potere all’interno degli schieramenti più pericolosi di quelli tra destra e sinistra. Con un monito terrorizzante: il fascismo continua a serpeggiare tra noi, non è finito, non è storia passata, la ripulitura e l’incapacità della sinistra italiana di essere veramente una sinistra alternativa al potere vigente, porta ad una stagnazione centrista ed assai inutilmente pericolosa. In mezzo a questa marea di relazioni sinistre, dove gli stessi Sraffa, Bordiga e Togliatti non sono esclusi dalle vischiose invidie del potere, si staglia la figura dignitosa e solitaria di Antonio Gramsci, vittima sacrificale del processo mimetico del potere, dove tutti sognano di essere al posto dell’altro, dove tutti litigano per imporre loro stessi, Gramsci sembra voler allontanare il fantasma della corruzione, e salvaguardarsi dall’odiosa pratica di accettazione di ogni scelta del partito, che causa cristallizzazione delle idee, congelamento del proprio pensiero, in nome di un pensiero collettivo o di una figura carismatica (Stalin o Togliatti poco importa) che rappresenti il Pensiero Unico del Partito. Gramsci è la cellula impazzita che non si schiera, nessuno (neppure il Duce) riesce a capire il suo movimento celebrale, è scomodo a destra, a sinistra, persino al centro, questa cellula cancerogena va evidentemente eliminata. Questo sembra suggerire il testo. Ma certe cose non quadrano. Intanto freno il mio giudizio sugli eventi che forse non si sono susseguiti veramente come Tarantino e Salvo vogliono mostrarci. L’interesse, credo, della scrittura (anche di quella scenica) è mostrarci il cancro del potere. La scena di Gianluca Sbicca che firma anche i costumi (filologici, molto belli e giusti per l’operazione) si compone di una serie di tavoli e sedie bianchi che distribuiti nei vari quadri in maniera quasi sempre differente compongono via via le diverse situazioni: il carcere, le varie stanze del potere, un locale molto in di Mosca, l’ospedale, una piazza di Napoli.... Questo continuo trasloco in realtà diventa quasi subito prevedibile e comporta una certa fatica da parte dello spettatore, perché rallenta ritmi e azione. Dietro la scena differenziata da una funzionale attrezzeria, un tulle che copre tutta la parete, dietro il quale compare spesso la stanza della sofferenza di Gramsci, sul tulle spesso vengono proiettati dei video, che hanno funzione esclusivamente didascalica e ci danno informazioni utili riguardanti i personaggi in scena. Il problema è che il didascalismo dei video si riflette anche sulle immagini scelte da proiettare, inutili ambientazioni, francamente prive di gusto. La scelta più importante della regia è quella di utilizzare maschere in lattice, disegnate da Guaschino, per tutti i personaggi fascisti o di destra, il volto naturale per Gramsci e i personaggi di sinistra. Se da una parte la maschera ci dà immediatamente un’atmosfera affascinante e anche giusta, perché capace di mostrarci la mostruosità e l’inadeguatezza dei personaggi rappresentati, dall’altra questa divisione così ideologica risulta priva di un vero fondamento, è come distinguere i buoni dai cattivi, ma è lo stesso Tarantino a ricordarci che tutti i caratteri rappresentati sono privi di un’autentica etica politica. Anche volendo giustificare la scelta per un ideologico schieramento politico, questa risulta non adatta al testo. Gli attori sono spesso bravi, soprattutto nel riempire le maschere. Vero è che all’inizio, la recitazione così grottesca e a tratti di stile ronconiano appiattisce il pensiero dei personaggi, mostrandoceli più stupidi di quanto siano scritti, dopo un po’ la scelta viene accettata dal pubblico e entra in un codice riconoscibile e metabolizzato. Molto bravo il direttore del carcere di Bonadei, che restituisce anche la figura di Togliatti con ambiguità e aria sinistra. Bene l’Amedeo Bordiga di De Filippo che riesce a mostrarci la passione politica, non negandoci tutte le contraddizioni insite nella figura di uno dei più importanti fautori del PCI. Un po’ troppo melodrammatico lo Sraffa di Fogacci, anche in questo caso ricordiamo la figura dell’economista molto più complessa e contraddittoria nella difficile gestione del rapporto tra il partito, lo stato e Gramsci, un po’ troppo caricaturale la figura di Mussolini, interpretata con sicura professionalità sempre da Fogacci. In generale gli attori tra cui Scarpinato, Sala e Melania Giglio (che tra i tanti personaggi, tratteggia con una passione troppo dimostrativa ma non priva di efficacia Tatiana Schucht - sorella della compagna di Gramsci - al suo capezzale) eseguono con efficacia i personaggi mascherati, ma con poca umanità quelli senza maschera. La parte più debole dello spettacolo è proprio quella di Gramsci, interpretato da Michele Maccagno: troppo artificiale la dimostrazione della malattia, troppo forti gli accenti melodrammatici, ma soprattutto un’esposizione di una bella tecnica ma senza ombra di una qualsiasi verità. Insomma se Gramsci rappresenta la vittima (consenziente o no, non si è capito) del sistema, Maccagno appare troppo emotivamente sterile, non aiutato dal costume imbottito che rappresenta il corpo gonfiato dalla malattia. Registicamente mi è piaciuta molto la scena ambientata in Russia, l’atmosfera di cospirazione e di ineluttabilità del destino dei politici verso la corruzione mi è parso uno dei momenti più belli di uno spettacolo che pecca solo di un po’ di superficialità e di un gusto non sempre appropriato nella scelta di video e delle musiche troppo da colonna sonora americana di Podda, ma è indubbia la capacità di gestire gli attori su una materia alquanto difficile. Peccato, perché dei momenti rimangono nella memoria dello spettatore. Forse una scelta meno ideologica e una recitazione più umana, soprattutto per la figura di Gramsci, avrebbe aiutato lo spettacolo, che comunque è stato molto apprezzato dagli spettatori in sala, e non disprezzato dalla medesima. Le luci un po’ troppo piatte nel creare atmosfere sono di Filipponio.



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