domenica 17 aprile 2011

Macadamia Nut Brittle, di Ricci/Forte

IL RITO DERITUALIZZATO:LA DERIVA DEL CONTEMPORANEO
di Fernanda Soana

Difficile è l’approccio, attraverso un’analisi critica, allo spettacolo degli artisti Ricci e Forte. Difficile il metodo analitico dove non esiste una vera materia d’analisi; il rischio dell’analista qui è quello di non comprendere appieno un “mondo teatrale” dove gli indigeni che lo abitano (gli attori) parlano la stessa lingua degli stranieri che lo visitano (il pubblico), dove l’apporto del critico, quello di creare un ponte linguistico tra lo spettacolo e lo spettatore è già abbattuto prima di essere costruito. Si può tentare di mettere in piedi un ragionamento, aldilà di ogni ideologia e di ogni giudizio legato al gusto? Non lo so, ci provo. Innanzitutto, come da copione di un filone della ricerca teatrale, non c’è una trama da seguire, né una grammatica o una logica da analizzare. Tutto l’esperimento vive in funzione della sua attività comunicativa, tutto ciò che viene detto e fatto è costruito in funzione dei bisogni del pubblico e, in questo caso bisogna dirlo, per compiacere un certo tipo di stampa che si aggira annoiata tra i salotti teatrali in cerca di qualcosa o di qualcuno che la risvegli dal letargo intellettuale nel quale si compiace di sostare. Ma anche questo è un giudizio e quindi una vanità di colei che scrive. In un’ora e mezza di spettacolo assistiamo alle prodezze di quattro generosissimi attori (Anna Gualdo, Fabio Gomiero, Andrea Pizzalis e Giuseppe Sartori a cui vanno i miei complimenti) che si muovono caotici nello spazio, parlando e spesso (ahimè) urlando attraverso l’ uso di microfono su asta, i propri dolori, gli amori infranti, le violenze subite dall’oggetto del desiderio, sogni, genitori assenti e... Isola dei Famosi, cronaca nera ma soprattutto rosa, citazioni tratte da cataloghi Ikea e slogan del MacDonald, vituperi contro Sanremo e contro il teatro (noioso e mortale) e chi più ne ha più ne metta perché ad un certo punto mi sono persa nel vorticoso ciclone di un oceano contemporaneo fatto di nudi, tentativi di sesso orale, anale, masturbazioni, uomini su tacchi a spillo, muffins prima ben sistemati con cura maniacale sul pavimento del teatro e poi inspiegabilmente spiaccicati (perché se il senso dello spiaccico era quello di non voler essere globalizzati dallo stesso global proposto, beh, mi scuseranno gli autori, ma era ben poca cosa). E infine, al culmine di un’ora e mezza tuonante di canzoni pop, rock, suoni, a volume da Number One, sotto una luce che spietatamente non cambia mai ( mi sono chiesta perché tanto spreco di elettricità visto il non esiguo numeri di proiettori usati per creare un unico e grande piazzato), uomini in mutande inondati di sangue da una donna (quanto maltrattata all’interno dello spettacolo lasciatemelo dire...) in tuta da fertilizzante e maschere dei Simpson (perché rinunciare ad un ennesima citazione? proprio non se ne poteva fare a meno?) che riposano in tende da campo-barbie (tombe di un occidente alla fine?) mentre la donna-simpson, poverina, resta sola fuori. Eppure il pubblico c’è, eppure il pubblico reagisce ridendo alle battute che livellano il maestro Catelan alle mise della Ventura. Un rito. Un’orgia. Un bisogno di catarsi. Il sangue attira l’uomo di oggi come un tempo attirava quello che scorreva nelle arene dei gladiatori. Un rito contemporaneo si dirà. No, perché lì il sangue scorreva veramente, mentre in questo spettacolo anche gli atti sessuali sono mimati, non esiste vero rapporto sessuale. Qui forse sta l’idea dei due registi-autori: in un mondo smitizzato, in un mondo di bassi riferimenti, in un mondo di solitudini, anche il sesso perde di senso. Si potrebbe suggerire ai registi di osare di più: o vera pornografia, o vera impossibilità del sesso, questa via di mezzo dell’oso ma non troppo, riduce fortemente la realtà di ciò che sta accadendo. Ricci e Forte scrivono con grande sagacia, ovvero dà l’impressione che sappiano continuamente ciò che stanno facendo, e a tratti i testi recitati, soprattutto nei momenti in cui gli attori singolarmente si avvicinano al microfono o si staccano dagli altri per dichiarare una mancanza, un disagio, non sono privi di efficacia drammaturgia e hanno una verità che in questo “oceano di banalità” direbbe un non noto drammaturgo francese, si perdono e si sfilacciano (ma anche questo è voluto per ricreare un global che tutto inghiotte). Il pubblico ci sta, nessuno si scandalizza, nessuno lascia la poltrona, il risveglio dei sensi dello spettatore imborghesito non è più un obiettivo della deriva della ricerca contemporanea. Quello di Ricci e Forte è un mondo che crea il proprio pubblico, attirato (come il bellissimo Zombie di Romero) dalle luci della rappresentazione, un pubblico che si rispecchia nel mondo-spettacolo. Un equivoco di shakespeare: il teatro è uno specchio della società, ma lo specchio non serve più a mostrarci l’immagine traslata che cambia il punto di vista di chi la guarda rispetto alla posizione che egli prende di fronte allo specchio, è solo un’immagine unica, piatta, spaventosa perché spaventosa è la reazione del pubblico che non assiste più alla decadenza, ma che vi partecipa docile e accondiscendente. Gioisce inspiegabilmente della propria. E’ un teatro questo senza più il pensiero. Un teatro di basse emozionalità. Un teatro che tenta di raccontare la deriva, adeguandosi esso stesso a quella deriva, un teatro senza analisi, senza moniti, ma non privo di una retorica tutta rococò quando ci racconta per la centesima volta quanto sia triste (e compiaciuta) la vita degli omosessuali in Italia (il mio pensiero durante quegli interminabili momenti andava agli struggenti film di Derek Jarman: cattedrali del pensiero e di un vero disagio omo-esistenziale). Qui invece... via il mito, via la perdita del mito, via l’assenza della perdita, ecco la contemporaneità allarmante e anestetizzante raccontata dal duo. Siamo alla fine della civiltà? Ci aspettano, come dopo le arene romane zozze di sangue, i circhi e le naumachie, e dopo la decadenza elisabettiana, anni e anni di solo teatro cattolico o puritano? Direi di no, forse ciò che ci aspetta è peggio, perché nel teatro che Ricci e Forte ci propongono, anche la serietà della morte del gladiatore sembra non poter aver più posto, anche gli estetizzanti tentativi dei post-elisabettiani vengono scavalcati dalle brutte immagini del nostro secolo. Se non c’è la morte (fortunatamente!) non potrà esserci dopo un Sant’Agostino a chiudere le porte dei teatri. Se non c’è lo scandalo di Ford che ci dichiara la bellezza dell’amore incestuoso, non ci sarà nessun ortodosso protestante a calare veli viola sui nostri teatri. A chiudere i teatri ci penserà il ministro del tesoro, e anche questo direbbero Ricci e Forte, è già un abbassamento. Ma una cosa dell’antico valore dei gladiatori resta: l’indomito coraggio degli attori, bravi e generosi nel mostrarci le loro ferite, non più schiavi dei patrizi costretti ad ammazzarsi, ma altrettanto schiavi delle basse paghe, delle cattive condizioni, schiavi del salario e del poco lavoro che li costringe a decisioni difficili, vite solitarie, inquiete e ben poco appaganti. I costumi, subito tolti agli attori, sono di Simone Valsecchi.



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