venerdì 8 aprile 2011

Quando l'amore è più freddo della morte.

SOGNO D'AUTUNNO, DI JON FOSSE , REGIA DI PATRICE CHEREAU
di Fernanda Soana

Prendo in prestito il titolo di un non famosissimo film di Fassbinder perché mi pare il commento più preciso che possa essere fatto sul lavoro, visto al teatro Strehler di Milano del regista francese. Per chi non conoscesse l’opera di Jon Fosse, ricordo che egli è considerato uno dei più importanti drammaturghi norvegesi della scena contemporanea mondiale. Erede della grande tradizione teatrale nordica, Ibsen in testa, capace di guardare all’oggi attraverso un uso della lingua asciutto, maniacalmente chirurgico e ossessivamente ripetitivo, dall’andamento presso che musicale (egli stesso ammette che scrivere è più un atto compositivo che intellettuale).
Sogno d’autunno - impossibile non annetterlo alla schiera dei “sogni strindberghiani e bergmaniani” - racconta l’incontro fortuito, ma non così fortuito, di un uomo ed una donna, antichi amanti, al cimitero dove verrà presto sotterrata la nonna del primo. Si incontrano e tentano di incontrarsi nuovamente sul piano sentimentale, lei è sola, lui divorziato e con un figlio che non vede da tanto tempo.
I tentativi di riavvicinamento sono strani, freddi, imbarazzanti, sessualmente sterili (non a caso vengono espletati all’interno del cimitero), finché non irrompono sulla scena i genitori di lui che nella loro incapacità di provare affetto ributtano i due amanti in un universo di solitudine e di impossibilità di relazione. Si aggiunge l’ex moglie venuta, come un messaggero dell’antica tragedia, ad annunciare che il figlio è in ospedale in condizioni gravi. Nell’indifferenza di ognuno, ma anche nel finto interessamento, assistiamo a delle strani morti, prima quella del padre, poi quella del figlio e in ultimo quella dell’uomo. Muoiono nello stesso luogo, nella stessa ora, ma in tempi differenti, o in un non-tempo imprecisato, mentre le tre donne a questo punto possono riappacificarsi ed assistere insieme al funerale dell’uomo. Questo finale non può non riaccendere il ricordo di quello del John Gabriel Borkman di Ibsen, anche là le due donne si stringevano la mano sul cadavere dell’uomo che per una vita si erano contese, come qui le tre donne si contendono l’amore e la morte dell’uomo.Lo spettacolo di Chéreau, di una classe rara, è ambientato in una sala del Louvre di Parigi. La scena di Peduzzi rappresenta appunto un imponente angolo di una sala del museo, dietro alle cui porte si possono intravedere altre stanze e altri quadri. I dipinti mi sembrano gli elementi meno interessanti del suggestivo impianto, anche perché per niente usati dal regista, mentre ciò che colpisce emotivamente sono le grandi pareti dove i quadri mancano, le targhe indicanti il titolo e il nome dell’autore, proprio grazie a quell’assenza si impongono come lapidi mortuarie. Lo spettacolo inizia con la platea ancora illuminata, mentre una vecchia donna, vestita con un pigiama bianco coperto da un maglia di lana molto vissuta, si avvicina a noi con un mazzo di fiori in mano, poi va alla ricerca della lapide dove poggiare i fiori (sarà la sua? o degli altri protagonisti?), strani e inquieti suoni coprono il silenzio. Poi su una vecchia canzone spagnola entrano i due protagonisti che ci mettono molto tempo ad avvicinarsi e a toccarsi. L’uso dello spazio da parte degli attori è fortemente espressivo, geometrico, i corpi si muovono precisi, dolorosi, con un nonché di espressionistico. I costumi di Caroline de Vivaise sono molto appropriati, rappresentano una classe evidentemente borghese e intellettuale, mentre i colori degli abiti che vanno dal verde scuro, al marrone, al blu e verso la fine al nero, ci immergono in un universo malinconico, ma anche malato, sentimentalmente e sessualmente malato.La colonna sonora fatta di suoni metallici, di echi funerei e sospensioni di Goupillon accompagna quasi tutto il dramma, e si interrompe in sporadici momenti di silenzio e in altri dove le musiche di Antony and the Johnsons sottolineano i maldestri tentativi dei due di ritrovare una sintonia fisica ed emotiva. Impossibile, l’amore per Fosse è più freddo della morte.Tutti i protagonisti, anche quelli messi in scena dal regista ma non previsti dall’autore (la vecchia nonna morta e il nipote) sembrano essere utili solo per il raggiungimento di un unico obiettivo: impedire l’uscita dal luogo. Oltre quella c’è un’altra morte, una morte dopo la morte, raggiungibile solo dagli uomini stanchi di essere morti (le donne, sembra dirci Chéreau non si stancano di vivere neanche in un’apparente morte, forse il loro unico desiderio è di vedere morti i loro morti, per raggiungere la pace, ma questo desiderio si chiarisce solo alla fine).Bella l’idea di usare anche la nonna e il ragazzo oltre alla prima moglie di lui, questo amplifica la spettralità dell’opera. Sono tutti doppi (padre-madre, uomo-donna, uomo-ex moglie, nonna-nipote) di loro stessi. Impossibilitati ad amare e quindi a vivere, ma obbligati dal loro status borghese ad amare e quindi all’ impossibilità di morire; in questo testo e molto nello spettacolo, si muore solo di stanchezza, sia di amare che di soffrire. Anche l’amore di Dio è annullato, se Dio c’è qui non appare, lo si cerca (soprattutto lo cerca l’uomo, mentre la donna non pare essere interessata a quel genere di amore) ma egli si nega. Ecco perché la nonna può coprire con dei fazzoletti bianchi solo i volti dei tre uomini, forse per imporre loro una morte definitiva che alle donne è tragicamente vietata. Loro non si stancano mai. Ma si riappacificano con il sacrificio dell’uomo. Il museo quindi diventa uno spazio due volte metaforico: metafora del cimitero e quindi della morte, metafora dell’ambiente borghese e intellettuale nei quali i personaggi-fantasmi sono obbligati a vivere per sempre. Oltre tutto il museo è già il luogo dove, grazie alle opere conservate, i fantasmi facilmente possono dimorare.La luce che illumina la scena, pensata per il regista da Madras, è statica e fredda, non cambia mai, se non nel finale, dove restano illuminate solo le sale posteriori, quelle forse dove andranno a vivere le tre donne, mentre la luce nella grande sala dove giacciono a terra i tre corpi morti degli uomini si spegne lentamente.Chéreau guida gli attori verso una recitazione che tende ad un rigoroso espressionismo, rinuncia al naturalismo per creare delle relazioni (precise al millimetro) spaziali e psicologiche che a tratti creano delle atmosfere beckettiane. Le sale raffinatamente composte dai fantasmi ci ricordano anche le sussurra e grida di Bergman: il rosso della sala nel cromatismo del cineasta nordico rappresenta infatti l’anima. Bravi gli attori, tra i quali emergono la figura nevrotica e depravata della donna di Valeria Bruni Tedeschi e l’indifferente tragica stanchezza del padre di Verlay, anche il resto del cast è ottimo, ma la recitazione di Pascal Greggory a volte si fissa su toni convenzionali, mentre quella della madre, la bravissima Bulle Ogier, a volte può sembrare eccessiva (ma averne attrici così), bene anche Marie Bunel, che si impone con una recitazione tutta interiore che nasconde (questo poteva essere meglio espresso) una erinnica rabbia vendicativa, bellissima la figura silenziosa e commovente della nonna di Michelle Marquais alla quale è stata destinata una sola battuta (che nel testo di Fosse in realtà dice la madre) E’ ora, dobbiamo andare, Alexandre Styker è il fantasma del figlio tragicamente dimenticato, che si muove sulla scena più come un danzatore che come un attore. Forse l’unico appunto che può essere mosso è di non aver chiarito con maggior efficacia il conflitto uomo e donna che porta le tre donne a riunirsi sul finale, è sicuramente un problema del testo che il regista però non ha del tutto sistemato.Il pubblico in parte tossisce e si annoia, non più abituato forse ad assistere ad uno spettacolo di un rigore quasi ascetico su un testo che innervosisce per la sua ossessiva ripetività. Peccato, in un’epoca teatrale di banali trasgressioni, commuove e convince l’austera eleganza, ormai persa, del maestro francese.

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