sabato 22 ottobre 2011

Quando la cattiveria è sinonimo di grazia.

Sonata per ragazza sola da Irène Némirovsky, progetto di Federica Bern e Francesco Villano

di Fernanda Soana
Nella bella sala della Cavallerizza del Teatro Litta è in scena in questi giorni uno spettacolo pieno di grazia e leggerezza. Si tratta di Sonata per ragazza sola, interpretato dalla brava Federica Bern e diretto dall’altrettanto bravo Francesco Villano. Lo spettacolo è una vera delizia. Intanto perché si basa sui testi della grandissima Irène Nèmirovsky, morta ad Auschwitz nel 1942, della quale siamo fortunatamente venuti in possesso delle sue opere, grazie al lavoro certosino delle sue due figlie scampate al campo di concentramento e che si sono occupate in questi anni di ritrovare, rimaneggiare, pubblicare e scrivere saggi sulla propria grande madre. Grande nell’arte e nella vita.
La scrittura della poetessa è complessa e al tempo stesso leggera, ironica e cattiva, ma piena di aperture. Come non commuoversi di fronte al finale pieno di speranza e di luce di Suite Francese, scritto dall’autrice nella piena consapevolezza che i nazisti stavano per venire a prenderla? Doppiamente bravi quindi Bern e Villano nell’aver deciso di portare al pubblico un rimaneggiamento delle sue opere, tra le quali emergono con evidenza i personaggi di Jezabel e soprattutto dell’irresistibile Il ballo. La trama e la sottile e raffinata ironia dello spettacolo rubano soprattutto a quest’ultimo testo.
La trama è questa, una bambina (la stessa Irène) vive fortemente il conflitto e il confronto con la madre, donna vanitosa e capricciosa, sposata ad un ebreo che ha fatto fortuna e desiderosa di entrare nell’alta società per vivere da protagonista la sua vita prima che la matura età porti via bellezza e giovinezza. La bambina vive all’ombra della madre, che non mostra nessun affetto per la piccola, me le due donne condividono le stesse frustrazioni, i desideri di affermazione, i desideri repressi, gli egoismi. La bambina, a cui è stato negato di partecipare al ballo indetto dalla madre per entrare finalmente nella Grande Société, si vendica stracciando gli inviti che ella stessa doveva spedire. Il finale è esilarante, la madre si trova a dover interagire con l’unica persona che ha ricevuto l’invito e si è presentata alla serata, la cattivissima insegnante di piano della figlia, e lo sciocco marito, dovendo così salutare per sempre i suoi sogni di gloria. La bambina soddisfatta può finalmente entrare nell’orribile mondo degli adulti.
Bravissima Federica Bern a interpretare il doppio ruolo di madre e figlia e i ruoli minori. Bravissima perché non cade nella tentazione di caratterizzare i ruoli, rimane invece sempre se stessa, mettendo al servizio dello spettacolo la sua freschezza, i suoi notevoli mezzi espressivi, grazia ed eleganza, cattiveria e ironia.
Il disegno registico è molto appropriato, giusto per Villano, il quale da attore si è preoccupato più della recitazione della Bern che di un allestimento e di un’analisi critica del testo. In scena, su una pedana, ci sono solo l’attrice, uno sgabello, un finto pianoforte, un vestito da ballo su un manichino. L’attrice appare dietro un sipario rosso, con appesi al collo gli inviti della madre, come fossero una pietra da usare per il suo prossimo suicidio. Bellissimo il momento in cui la bambina, stanca di questa vita nell’ombra, decide di suicidarsi passando in rassegna tutti i suicidi delle eroine letterarie, da Emma ad Anna,... gioco raffinato e di grande pregio stilistico. Bellissimo il momento in cui la Bern diventa la madre, mostrando una grande capacità tecnica nel recitare la parte mentre si fa avvolgere da una chilometrica collana di perle, simbolo della sua vanità e della sua stessa prigionia. Ottime le soluzioni nel portare in scena gli altri personaggi, con l’evocazione di piccolo gesti, o bigliettini da visita che mostrano il cambio di personaggio. Ben fatto, ben pensato, pensato con il cuore e con un serio percorso. La Bern fa vivere con ilarità la sfida tra le due donne (il testo è autobiografico, la madre della Némirovsky era veramente un’orribile donna che non ha voluto nemmeno aiutare le sue nipoti dopo che la figlia era stata deportata), eseguendo con grazie il percorso quasi geometrico di tragitti, ritmi e movimenti creati insieme a Villano, per mostrare i desideri che si combattono, si uniscono, si spezzano. La gestualità è precisa, appropriata, solo a tratti diventano noiosi i percorsi che si ripetono sempre uguali. Ma Villano mostra una grande attenzione al lato umano delle due donne e quindi gli si perdono delle piccolo ingenuità registiche. Il lavoro è veramente ben fatto.
L’unico appunto che mi viene da fare è alle note di regia.
I due artisti ci tengono a sottolineare l’attualità del testo, dato dall’edonismo galoppante dei nostri tempi, e la grottesca caricatura dell’ amore per la rappresentazione di se stessi. Cercano di giustificare la scelta di un testo non proprio attuale, tentando di raccontare attraverso esso il contemporaneo. Lo fanno fortunatamente solo nelle note di regia, non nello spettacolo. Dico fortunatamente perché non ce n’era assolutamente bisogno. La scrittura è quanto più lontana dalla barbarie dei nostri tempi. Anche se c’è vanità ed edonismo, il rapporto tra noi e lei è impossibile. La scrittura è alta, stratificata, ironica, cattiva contro la stessa autrice, è una scrittura che non fa sconti a nessuno, al contrario di alcuni testi dei nostri tempi. Il testo non è contemporaneo. Mi viene da pensare che non ci sia nulla di male. Mi viene da suggerire che è bello per due giovani artisti accostarsi alla grande letteratura, anche se non racconta la crisi del nostro tempo, non racconta guai politici o caos contemporanei. Quando una cosa è grande, resta grande, senza bisogno di giustificazioni. Bravi.

Scuola Sbroc: Pezzoli e il teatro dell’accadere.

Le possibilità (e impossibilità) del teatro
di Fernanda Soana
E’ noto a tutti i teatranti italiani il lavoro di pedagogia teatrale che da molti anni la regista Cristina Pezzoli porta avanti con grande impegno e dedizione. Il suo è un lavoro che mescola realtà e palcoscenico, teatro e politica. La regista sembra volerci dire che solo un teatro che accade veramente, un teatro del “qui e ora”, un teatro senza paracadute e senza reti di protezione, senza struttura insomma, possa essere politicamente pericoloso. Inizia qualche anno fa il suo sodalizio artistico con la drammaturga Letizia Russo, con il bellissimo “Tomba di cani”. Le due perseguono insieme la ricerca di un modo di fare teatro sganciato dagli obblighi di produzione, dalla consegna di un lavoro finito e terminato, dalla partitura scenografica e attoriale, che costringe artisti e spettatori a seguire uno spettacolo di esecuzione tecnica, un teatro che Cristina Pezzoli ama definire morto.
Il suo metodo è molto semplice: chiamare attorno a sé e alla sua carismatica personalità un gruppo di giovani attori, lavorare insieme ad ognuno di loro, cercando di smantellare ogni loro certezza, ogni maschera, alla ricerca dell’azione vera, l’unica degna di essere portata sul palcoscenico. Affinché quest’azione possa realmente accadere, l’attore non deve prestabilire niente, deve solo affidarsi a ciò che succede in scena, mentre gioca con i suoi compagni. Si tratta quasi di un match di improvvisazione.
Al teatro Ciro Menotti ho assistito a due lavori della Pezzoli, il primo della durata di un’ora e mezza intitolato Scuola Sbroc, il secondo di un paio d’ore dal titolo Opera viva. Già questo titolo dimostra che ciò a cui assisteremo non è solo un lavoro, ma un’ideologia di lavoro, una presa di posizione del gruppo contro il modo di fare teatro tradizionale.
Partiamo dal primo lavoro. Scuola Sbroc parla di una classe di alunni scoppiati o “sbroccati” che polemizzano apertamente, e spesso in maniera aggressiva, con il Professor Livolsi (interpretato appunto da Paolo Livolsi). Durante l’ora di lezione però il Professore sbrocca più di loro, impugna una pistola e li costringe a confessare i segreti più oscuri della loro vita, tra sevizie e giustizialismi.
La regista apre lo spettacolo spiegandoci il tipo di lavoro a cui assisteremo: gli attori non hanno un testo da seguire, ma un canovaccio come gli attori della commedia dell’arte, sul quale i giovani interpreti sono liberi di creare il loro testo personale. E’ un lavoro sull’autorialità dell’attore. Bello quest’accostamento tra i suoi attori e i commedianti, se nonché mi piacerebbe ricordare che gli artisti della commedia dell’arte non improvvisavano mai, avevano sì un canovaccio, ma anche tutto un repertorio di parole, gesti, acrobazie, codici che sapientemente utilizzavano di sera in sera. L’improvvisazione non era proprio nei loro piani semplicemente perché non esisteva. La parola improvvisazione comincia a comparire nel linguaggio teatrale solo nel 900.
Perdonate questa noiosa precisazione, ma come dottoressa in Storia del Teatro, non potevo non farla. Il lavoro comunque ha spunti interessanti. I giovani attori veramente improvvisano ed è molto piacevole vedere come e quanto si ascoltano, come interagiscono con una certa efficacia alle provocazioni e alle situazioni presentate. Ma le situazioni ahimè sono troppe e troppo banali. La ricerca di un totalitarismo realistico fa perdere molta credibilità alle azioni stesse. Mi spiego, ho trovato implausibile che in un’ora e mezza potesse succedere tutta quella quantità di roba, i ragazzi litigano tra di loro, facendo scattare dei conflitti personali, poi litigano con il maestro (e fin qui tutto bene), poi il maestro tira fuori una pistola li obbliga a tirare fuori ombre che nemmeno uno psicanalista dopo 5 anni di analisi riuscirebbe a fare, e qui iniziano le incongruenze. Intanto la reazione alla pistola è alquanto inverosimile, la regista sembra aver terrorizzato gli attori a non essere mai fortemente teatrali, gli attori appaiono quindi preoccupati a fare sempre il meno possibile, risultando a volte indifferenti e poco stupiti (come in questo caso o ancora più evidentemente più tardi quando il professore taglierà le dita a quasi tutta la classe). Inoltre gli attori si spalleggiano a vicenda, si aiutano (che è un bene) ma questo non permette mai di andare a fondo ad una sola azione, preoccupati come sono, per restare vivi sulla scena, a non ripetere mai la stessa cosa e a cambiare continuamente ritmi e situazioni, finiscono nella trappola di risultare generici, retorici e poco veri. E’ come se ognuno di loro portasse in scena una decina di personaggi e quindi mai uno autentico. Il problema più serio però è da imputare alla regia: seguire pedissequamente la linea del realismo impedisce di entrare in altri piani naturali al teatro, come l’evocazione, la fantasia, il surrealismo. Il problema si presenta quando il maestro uccide gli allievi e loro resuscitano e uccidono a loro volta l’insegnante che resuscita, come a voler dimostrare l’impossibilità della vera morte a teatro. Così anche quando il Prof taglia le dita ai ragazzi, gli attori non riescono (nell’inverosimiglianza dell’azione) ad avere reazioni credibili (risultano sempre incazzati e piagnoni e mai inquietati, impauriti, stupefatti). Ripeto, non è un problema attoriale, ma registico. Servirebbe qui alla Pezzoli di credere maggiormente nelle possibilità del teatro, che è luogo anche della fantasia, dell’immaginazione, della forma e della struttura. Qui, una maggiore strutturazione del momento, utilizzando gli strumenti adatti ad accedere a piani di racconto teatralmente complessi, avrebbe fortemente aiutato la fruizione. Rispetto fortemente la parte pedagogica della Pezzoli, ho dei seri dubbi che l’ideologia (o utopia) del suo lavoro possa colmare registicamente evidenti mancanze.
Mi piacerebbe citare i generosi interpreti, ma il Teatro Ciro Menotti, come sempre, è avaro di fogli di sala, presentazioni della compagnia, che mi avrebbero permesso di citare i nomi degli interpreti, e mi scuso con loro e li applaudo anche da queste pagine.
Su l’altro lavoro spendo poche parole: tratta di un viaggio di galeotte europee su una nave-prigione che le porta in Australia, durante la colonizzazione degli inglesi del nuovo continente. Non aveva senso spingere un folto numero di attrici a presentarsi ad un pubblico pagante con improvvisazioni filodrammatiche, senza capo ne coda, mettendo in seria difficoltà sia le giovani che cercavano di rendere, per quanto potessero, drammatiche e necessarie le azioni che portavano in scena, e mettendo in serio imbarazzo il pubblico in sala ( o almeno, io ero molto a disagio) che non sapeva se dovesse seguire una traccia di storia personale delle attrici o le assurde pretese della regista che, per mancanza di tempo, le spingeva ad accelerare le situazioni, interromperle, passare ad altro,.... ma a cosa e a chi serviva tutto ciò?

lunedì 4 luglio 2011

SAGGI DI FINE CORSO: SCUOLA DEL PICCOLO TEATRO DI MILANO E TEATRO STABILE DI TORINO

A che serve essere giovani se il teatro è un mondo per vecchi

di Fernanda Soana

Mi è capitato, per una fortunata coincidenza, di assistere in questi giorni ai saggi di diploma della Scuola del Piccolo Teatro di Milano e a un saggio di fine secondo anno della Scuola del Teatro Stabile di Torino. Mi sono chiesta se fosse corretto parlare in questo blog di due saggi che non avevano la pretesa di essere considerati come produzioni da mostrare al pubblico, ma semmai esercitazioni in vista dell’entrata dei giovani attori nel mondo del lavoro. Mi sono decisa comunque a scrivere, non tanto una recensione, quanto una serie di pensieri che ho avuto rispetto alla generazione di attori che farà parte della cosiddetta scena contemporanea. Iniziamo con la Scuola del Piccolo. Ho assistito nella stessa giornata a due diversi saggi, il primo: un ennesimo Gabbiano di Cecov e il secondo: un meno scontato Platonov, sempre dello stesso autore.

Guardando il catalogo delle passate edizioni dei saggi, mi sono accorta, con stupore, che la Scuola del Piccolo finisce ogni triennio presentando quasi sempre un testo di Cecov a cura di Enrico D’Amato. Ho pensato allora che il regista-insegnante credesse fermamente, e anche io in parte ne sono convinta, che l’esercitazione degli allievi su questo autore possa aiutarli a risolvere grossi problemi di recitazione.

Quello a cui ho assistito ha però dello sbalorditivo. Intanto la scarna scena, fatta di sedie inizio secolo, un siparietto con proiezioni in stile Vecchio Munch e un piccolo palco, e gli eleganti ma consunti costumi della Spinatelli, non facevano presagire niente di buono e di nuovo, ma la cosa più straniante è stata la direzione dei giovani attori. Tutti ingabbiati in gesti, intonazioni, ritmi, e posture che fanno risalire il loro lavoro agli anni 50, ovvero alle prime regie di Strehler. Incredibilmente a tratti, qualche atonalità del Ronconi anni 70, in segno di rispetto e riconoscenza per il loro Direttore. Ora, pace all’anima buona del compianto Maestro e con tutto l’amore per Ronconi, mi chiedo come possano questi ragazzi affrontare il teatro che fuori della scuola li aspetta. Come potranno incontrare Latella, Binasco, Rifici, Dante, Cirillo, Malosti e tutti gli altri, se non attraverso dei traumatici risvegli dal lungo letargo scolastico. Come potranno considerarsi degli artisti se tra i loro riferimenti non ci sono i grandi registi della scena contemporanea: Marthaler, Ostermejer, ... Non posso chiaramente scrivere che la Scuola formi cattivi attori, non ho assistito al percorso pedagogico e artistico di questi tre anni, ma ciò che si può inquietamente affermare è che il loro biglietto da visita, quello scritto per loro dagli insegnanti, non mette in luce né il talento, né le possibilità espressive dei diplomati. Li schiaccia in una forma antica, bella e utile solo se vista al museo di storia del costume. Poi diciamocelo, un conto è la poesia di Strehler, o l’acuta osservazione di Ronconi, altra cosa è lo scimmiottamento. Mi verrebbe da consigliare, ad un teatro già in seria perdita di prestigio come quello del Piccolo, che è tempo di cambiare e di svecchiare struttura e metodologia. Non sono contro il passato, credo che sia giusto per i giovani attori incontrare attori del calibro di Nuti, Lazzarini e Giannotti, è giusto raccordarli ai grandi maestri del passato, ma ancora più giusto sarebbe aiutarli ad impossessarsi degli strumenti adatti per affrontare presente e futuro.

Auguro a questi ragazzi tutto il bene, per ora mi viene da suggerire ai registi due nomi: il giovane De Mojana, intelligente e curioso e la brava Rosellini, capace di dare se stessa persino in un saggio dove il lavoro dell’attore su di sé, il lavoro sui rapporti tra gli attori in scena e tra i personaggi, la vita insomma, non sono stati minimamente presi in considerazione.

Di altro spirito il saggio su Girotondo di Schnitzler a cura del nuovo direttore della scuola di Torino Walter Malosti, con l’aiuto prezioso del coreografo Alessio Maria Romano. Qui al contrario, energia pura e libera, fantasia sfrenata (ci hanno tenuto molto a sottolineare la natura autorale del lavoro, nato sulle improvvisazioni dei ragazzi poi guidate da Malosti). I corpi degli allievi devo dire sono sorprendentemente vivi e allenati, è un piacere vedere tanta energia sul palco, tanta voglia di fare. I venti ragazzi, divisi in due gruppi, hanno presentato due diverse versioni di Girotondo, ognuno apportando la propria personalità e la propria fantasia al servizio dello spettacolo, confezionato in modo molto pop dal regista. Certo, quest’operazione che avrei stroncato se fosse stata presentata come uno spettacolo vero, visto che non risolve neanche uno dei problemi di interpretazione posti dal grande Schnitzler, infarcita così com’è di gag, e goliardie, al contrario, l’appoggio pienamente come esercitazione: qui si vedono gli interpreti, si vede che cosa possono realmente dare, anzi risultano per lo più bravi, anche se un occhio attento riesce già a dividere quelli più deboli dagli altri francamente più pronti per la professione.

A Walter Malosti, che si sta dimostrando intelligente conoscitore di ciò che serve al teatro del futuro, portando i ragazzi ad avere corpi vivi e reattivi in scena, e voci piene ma non impostate, darei, se mi è lecito, un paio di consigli: il primo è di insistere su una dizione più pulita per alcuni dei ragazzi, l’altra è di non abbandonare il lavoro sul testo. Essendo lui un bravo regista di atmosfere e sperimentazioni sonore, dovrebbe farsi affiancare da qualche insegnante che si occupi di analisi del testo, qualche attore o regista (Popolizio? Binasco? Rifici?) che si distinguono per il loro lavoro sul personaggio.

Anche a questi ragazzi auguro tutto il bene e che riescano presto a incanalare la loro commovente energia nel lavoro, anche qui qualche nome che già si distingue per autonomia e bravura: Alice Spisa, Jacopo Squizzato, Christian Mariotti e Anna Charlotte Barbera (quando non esagera).

mercoledì 29 giugno 2011

UNA VALLE OCCUPATA DA SALVARE

Non una recensione, ma poche righe per raccontare quello che sta accadendo da due settimane al Teatro Valle di Roma. Proprio circa un mese fa segnalavo il silenzio della capitale in merito alla chiusura del Valle. Oggi qualcosa sembra essersi messo in moto: lavoratori dello spettacolo, artisti visivi, tecnici, drammaturghi, scrittori, fotografi, studenti hanno occupato uno spazio pubblico, di immenso valore storico e artistico per il paese, il cui futuro è ancora incerto.

Nonostante le rassicurazioni da parte del comune di Roma, nessuno si esprime a riguardo della copertura economica stabilita per il Valle. Forse perché i tagli del comune, che a breve saranno ufficiali, non risparmiano nessuna realtà culturale della città, tantomeno il Valle. C'è grande imbarazzo da parte delle istituzioni e intanto il Valle non ha una programmazione. Gli occupanti restano lì, giorno e notte, tra assemblee, incontri, discussioni, serate-spettacolo, restano a dare vita ad un "bene comune", un bene che non può essere dismesso e che deve rimanere pubblico.

Il passaggio ad un privato, dopo un bando pubblico di dubbia trasparenza, ad oggi, con la legislazione in vigore in Italia, non garantisce che il Valle rimanga ciò che è sempre stato: un luogo a vocazione internazionale, che ha sempre coniugato tradizione e innovazione.

La lotta dal basso che stanno portando avanti gli occupanti del Valle, a cui va tutto il mio sostegno, ha un respiro più ampio che non può e non deve essere sottovalutato. Erano secoli che i lavoratori dello spettacolo non alzavano la voce in modo così diretto e incisivo, forse perché ormai le problematiche del settore cultura non hanno fine e anzi peggiorano sempre più (vedi l'eliminazione della disoccupazione).

Molti nomi "illustri" si affacciano al Valle in questi giorni, offrono la loro disponibilità e la loro onestà di intenti. Ma io non mi fido: 

"Cari Baricco, Lavia, Barbareschi e compagnia bella, giù le mani dal Valle. Qui c'è qualcosa di nuovo che ora non tace, fucina di idee e proposte. Fareste meglio a rimanere nei vostri beneamati orticelli culturali, quelli  di cui vi siete con tanta dedizione presi cura, che hanno ottenuto riconoscimenti, finanziamenti, che gestite in piena libertà. Rimanete lì, oppure se come Barbareschi non ne avete, fatevi una bella vacanza, ma tenetevi alla larga dal Teatro Valle di Roma."

serafino mirante

mercoledì 22 giugno 2011

FRATEME, scritto e diretto da Benedetto Sicca

La favola nera e la catarsi contemporanea
di Cosimo Attico
Partiamo da un dettaglio senza importanza: quando sono arrivato a Torino per vedere Frateme di Bendetto Sicca, proposto all’interno del prestigioso “Festival delle colline torinesi” scopro che la città è in subbuglio da giorni. E quando entro al teatro Gobetti la sera di martedì 21 giugno e lo scopro semivuoto, scopro anche che il fervore non era per il prestigioso festival del teatro di ricerca ma per la parata annuale dei bersaglieri avvenuta qualche giorno prima. E quando poi a fine spettacolo gli attori, al grido di “dopo l’acqua e l’aria riprendiamoci la cultura”, leggono un comunicato solidarizzando con l’esperienza di occupazione che in questi giorni sta riguardando il Teatro Valle di Roma mi chiedo: ma questa rivoluzione per chi la si fa?
Ma abbandoniamo le domande e veniamo al mio ruolo di critico.
Il testo e la regia di Frateme sono di Benedetto Sicca, arrivato abbastanza rapidamente a proporsi alle importanti scene off nazionali dopo anni da attore di teatro e cinema. Frateme è uno spettacolo che ha apparentemente una scrittura classica da commedia all’italiana di tema familiare: tre fratelli napoletani (Primo, Seconda e Secondo Piscopo), tutti omosessuali “con diversi gradi di autocoscienza e diversi modi di relazionarsi con la società” (dal programma di sala), a cui ruotano attorno tre figure identificabili come gli oggetti del desiderio dei fratelli -lo psicologo di Primo, l’insegnante di inglese di Seconda, il collega di lavoro di Secondo, una madre iperpresente che evoca un padre sempre assente assumendosene e giustificandone l’esistenza.
Il primo atto (o meglio quadro, dal momento che non esistono stacchi evidenti tra un atto e l’altro) è strutturato con una drammaturgia programmaticamente simmetrica: vediamo tutti e tre o fratelli alle prese con i rispettivi giochi di seduzione, i tre fratelli nel rapporto con la madre e nei rapporti l’uno con l’altro. Nel secondo quadro, durante una cena che vede riuniti tutti i personaggi (che evoca la tradizionale scena a tavola di molte drammaturgie partenopee), la commedia diventa grottesca e tragica. Nel terzo la commedia nera si fa tragedia, le relazioni scoppiano, De Filippo diventa Fassbinder, la situazione realisticamente tratteggiata nei due atti precedenti si fa eccessiva, tra la favola noir e il thriller: intuiamo le cause antiche e le conseguenze apocalittiche della gabbietta familiare. Le belle luci di Marco Giusti nel terzo atto diventano livide, fino ad evocare attraverso l’uso di fari rossi un ipotetico incendio a fine spettacolo, suicidio/omicidio/soffocamento silenzioso/falò propiziatorio, pronto a ridurre in cenere quello che non si ha avuto il coraggio di affrontare. Sfondo alla vicenda è la Napoli della puzza di immondizia, la città che estromessa a forza pare essere invadente e presente fino a forare le mura casalinghe.
La trama, quasi prevedibile nell’almodovariano eccesso, non dice nulla di nuovo, e nel finale manca forse di originalità. C’è tutto: dal rapporto morboso madre-figlio, alla reticenza familiare, all’abuso, dall’omosessualità vissuta a quella negata, le morti in scena, il cibo, il sesso, le malattie mentali, l’intellettualismo giovanile, le citazioni di altri autori chiamati a farsi testimoni della legittimità del racconto. C’è fin troppo. Eppure questo troppo è gestito con delicatezza da una scrittura che arriva all’eccesso attraverso un percorso preciso e leggibile: le relazioni raccontate da Sicca sono spesso commoventi nella loro riconoscibilità, ogni rapporto è tratteggiato in modo dettagliato e intelligente dalla sapienza della scrittura di un autore indubbiamente consapevole delle possibilità della drammaturgia di raccontare attraverso la quotidianità qualcosa di assoluto, di staccarsi dalla convenzione stereotipata per raccontare relazioni riconoscibili. La scrittura diventa compiaciuta e talvolta irritante laddove pretende di farsi assoluta attraverso le scorciatoie dell’erudizione, dell’aforisma, della retorica.
Il linguaggio scelto da Sicca per il suo racconto è ben sostenuto- anzi impreziosito- da un gruppo di interpreti di rara coesione: convince il raffinato lavoro di Francesco Vitiello che arriva a mostrare la deriva patologica di Secondo (eccessiva e a tratti incredibile) attraverso un percorso chiaro e intelligente, quello di chi rimane ancorato ad un lutto (per i morti, per i vivi che abbandonano, per la parte rimossa di sé) che febbrilmente lo sposta dalla realtà. Anche l’interpretazione disperata e provocatoria di Emilio Vacca risulta efficace, fino ad essere in certi momenti commovente, come quella di Giorgio Sorrentino e della madre Paola Michelini, che porta in scena con ironia la connivenza di un materno che non vuole vedere il disastro che ha sotto gli occhi. Valentina Vacca racconta la sua Seconda con toni che talvolta sono parsi al sottoscritto più un compiacimento dell’attrice che una balda sfrontatezza del personaggio- pur riuscendo a consegnare al pubblico un ritratto interessante. A Camilla Zorzi e Luca Saccoia l’ingrato compito di misurarsi con una lingua più artificiale, un italiano medio spesso meno concreto della lingua dialettale (condanna da sempre della lingua italiana!). E se Camilla Zorzi riesce con dolcezza e precisione a rendere umanissima la sua Corinna, l’insegnante di inglese che non ha mai vissuto, Luca Saccoia rischia più volte di mancare l’appuntamento con la specificità di una relazione, che risulta spesso inverosimile.
Ci sarebbero molte cose da dire su questo spettacolo, i segni, gli elementi che Sicca sceglie di utilizzare sono molti e non sempre ben gestiti, ognuno dei quali meriterebbe un’analisi dettagliata: dal mimo (usato massicciamente nei primi due atti per poi scomparire che riesce a convincere e a non risultare un virtuosismo solo nel secondo atto), all’astrazione delle geometrie spaziali (nella scena di Tommaso Garavini e Flavia di Nardo ci sono sedie, un tavolo, e un letto di metallo che scorrono sui binari del palcoscenico, mentre i costumi realistici sono di Simone Valsecchi). Le luci di Marco Giusti sono uno dei segni forti dello spettacolo, efficaci e poetiche nel disegnare gli spazi.
Quello che veramente convince il sottoscritto è la scelta di occuparsi dell’emotività dello spettatore, quasi spingendola a misurarsi con le emozioni più antiche e popolari. Si piange e si ride, come lo si fa al cinema, quando si spera che il film non finisca per dare ancora per un po’ libero sfogo alle proprie emozioni, riconoscendo nei meccanismi presentati sulla scena qualcosa di universale e personale. È una scelta pop quella di Sicca, di spingere il pedale emotivo per smuovere anche gli irriducibili, i freddi o quelli che a teatro o si annoiano o non ci vanno. E in questo riesce. Nonostante molte cose siano in questo spettacolo imperfette, dalle scelte di regia (troppe e non sempre portate fino in fondo, in una bulimia semiotica in cui anche il critico non può che arrendersi), alla scrittura che nel terzo atto si fa compiaciuta, rimane encomiabile (per il sottoscritto, che ama il teatro di relazioni e lo svisceramento dei rapporti, che crede nella delicatezza dell’interpretazione e nell’ironia della scrittura) la scelta di attingere, in modo riveduto e corretto, a quel Melò che appartiene alla nostra tradizione ma necessita di un rinnovamento di codici.
La commedia napoletana, con le urla, il sangue versato e lo sfogo dei conflitti, è forse irrecuperabile per raccontare una contemporaneità di silenzio e di inconsapevolezze. Non si può nemmeno raccontare l’oggi parlando di poveri e ricchi come l’ha fatto tanta scrittura del Novecento, ma si può tentare di ridare un nome alle cose, definire i nuovi “noi” e i nuovi “loro”, senza escludere nessuno, senza fare battaglie politiche se non un politico, etico, necessario, ritorno all’uomo, fatto di testa, di carne e di emozione.
A questo punto, al momento della lettura del comunicato di solidarietà con i manifestanti del teatro Valle, viene da pensare che il teatro sia- possa essere ancora- uno strumento di catarsi popolare e che quella cultura denigrata e calpestata possa ancora essere un bene collettivo da salvare.
Pubblico scarso ma entusiasta. Tanti piangono, pochi commentano, molti applausi, nella speranza di vedere il lavoro nelle stagioni invernali.

sabato 28 maggio 2011

RISPOSTA AD ANNA BANDETTINI- che si interroga sullo stato di salute della critica teatrale

ovvero "perchè è nato teatro guardato"
di Cosimo Attico


La critica teatrale c’è o no? Così titola l’ultimo articolo che compare sul blog della giornalista di Repubblica Anna Bandettini.
È una domanda che io e miei collaboratori ci poniamo da tempo, nel tentativo di ridefinire il ruolo di uno strumento, quello della critica teatrale, che abbiamo visto negli ultimi dieci anni diventare sempre più un organo politico che uno strumento di tramite.


Ricordo un episodio di qualche anno fa. In uno dei templi del teatro milanese, seduto a vedere lo spettacolo, assisto alla conversazione di due appassionate spettatrici non più giovani le quali, con ritaglio di giornale alla mano, pochi minuti prima delll’inizio dello spettacolo, si chiedevano se sarebbe stato brutto come la recensione diceva. Era un giornale importante, non c’era motivo di metterlo in discussione, soprattutto accettando la propria ignoranza in materia. E fin qui tutto normale. Ho chiesto alle signore di prestarmi il ritaglietto e ho letto la recensione. Non la trovai affatto negativa: si poteva cogliere un attacco abbastanza aggressivo alle politiche di quell’importante teatro, un pallido sostegno agli attori che meno appartenevano a quella struttura, l’elogio di una regia finalmente interessante in confronto alle altre produzioni del teatro. Non un accenno agli elementi dello spettacolo. Non una riga che aiutasse le signore nella fruizione del lavoro.


Cito quell’episodio ma potrei raccontarne molti altri. Se in quel momento avessi dovuto rispondere cos’è la critica avrei detto che era un giudizio su un lavoro complesso, messo in relazione con gli altri spettacoli presentati in quel teatro. Se in quel momento mi fossi domandato (e l’ho fatto) quale era l’utilità dell’operazione di critica la risposta sarebbe stata attribuire o negare un valore ad un progetto.
È questo il compito della critica? Giudicare gli spettacoli, in base a un giudizio che poco si distanzia dal bello-brutto, in quella semplificazione dicotomica che getta dalla torre o salva dalla distruzione? (non è anche un giochino frequente nei programmi televisivi?)


Ma quale potrebbe essere invece il ruolo della critica? Dicesi critica “insieme di analisi, interpretazioni e commenti relativi ad un’opera artistica”(Enciclopedia Zanichelli 1994) .
Nel sovracitato articolo ci si limitava al commento, come quasi sempre succede. Talvolta, nelle critiche più apprezzate dal sottoscritto, il commento è affiancato dall’interpretazione, ma l’analisi difficilmente trova posto nelle poche righe dedicate all’analisi teatrale (ricordo un quotidiano per cui ho scritto che mi chiedeva 1750 caratteri per recensione, a voi il calcolo della pochezza delle righe e di conseguenza dei contenuti!).


La critica teatrale potrebbe e dovrebbe essere un tramite tra linguaggi, uno strumento che dia le chiavi di accesso ad un pubblico per entrare nella lingua propria di quel lavoro. La critica potrebbe e dovrebbe inoltre essere un’analisi dettagliata del lavoro di quella traduzione intersemiotica che è la messa in scena, dovrebbe analizzare il lavoro fatto dall’equipe, e servire a regista attori e collaboratori come riscontro del lavoro fatto.


Certo, non sempre è possibile. Talvolta c’è ben poco da analizzare.


Ma gli elementi che intervengono in uno spettacolo sono tanti e complessi, dal testo di origine al testo spettacolare, al lavoro di interpretazione degli attori, il lavoro sul linguaggio, il rapporto con la contemporaneità, luci e costumi, prossemica spaziale, il movimento, gli effetti sonori e le musiche (e sono tutti gli elementi che tentiamo di analizzare in ogni scritto che pubblichiamo su teatroguardato).
Ed ecco che accettando la complessità del teatro il critico smette di essere arbiter godibilitatis ma diventa semiologo, traduttore e interprete di una rete complessa, diventa colui che cerca di districare un filo da un altro, miniaturista che analizza i segni e li rende comprensibili e fruibili. Non credo che serva al teatro italiano qualcuno che dall’esterno decreti se un lavoro è buono o cattivo, ma credo che la critica possa essere uno strumento etico, un modo per far avvicinare al teatro chi non parla il linguaggio teatrale, e nello stesso tempo un riscontro utile a chi ha creato quell’opera.


Rispondo alla domanda senza risposte di Anna Bandettini: la critica non esiste più, non una critica adatta ai tempi. Con questo obiettivo abbiamo iniziato a scrivere questo blog: vogliamo essere un punto di riferimento che analizzi, interpreti e commenti la scena teatrale contemporanea.
Non sto negando la soggettività del critico. È impossibile non far agire nel momento in cui si scrive i propri gusti, la propria natura, il proprio sentire, ma nel momento in cui questo è esplicitato e distinto dall’analisi, il lettore/spettatore ha la possibilità di essere informato e non manipolato, come tanta mala informazione tende a fare (teatrale e non solo teatrale), sostituendosi al giudizio critico di chi legge e anzi immaginando che non ne abbia uno. 

Speriamo di riuscire nel nostro intento. 

lunedì 23 maggio 2011

Brevi passeggiate alla Garbatella.


Teatri di Vetro, ciò che ancora sopravvive a Roma.

L'altra sera ho assistito a due performances all'interno dei lotti del rione Garbatella di Roma. I lotti sono quell'insieme di case popolari con cortile comune al centro tipiche di questo luogo sospeso, magico, immerso in una realtà popolare che parla ancora di memoria e storie. Ed ecco che Daniele Spanò attraverso i volti degli abitanti di Garbatella ci riporta indietro, a quel tempo in cui si mangiavano i crescioni, si raccoglievano i mozziconi da terra per riutilizzarne il tabacco, si andava alle giostre in cambio di qualche sigaretta. Piccole storie raccontate dai volti del quartiere, proiettati sulle lenzula stese di un cortile di Garbatella. Semplice, commovente e sensibile. Passeggio e arrivo al lotto in cui Claudio Angelini, regista della compagnia Città di Ebla, tiene il suo racconto-lezione attraverso le foto di Gianluca Camporesi. Le immagini riguardano il lavoro tetarale della compagnia, ma il discorso verte sul corpo, sulle diverse entità che assume sotto l'occhio attento e particolarissimo di Camporesi. Le foto sono proiettate sulla parete di un edificio, il pubblico seduto all'aperto ascolta con attenzione Angelini, il suo parlare è fluido, coinvolgente e pertinente. Piccoli interventi artistici che Roma accoglie all'interno della rassegna Teatri di Vetro, festival che ancora sopravvive al degrado culturale di questa città. Vi partecipa il quartiere, il pubblico comune e gli addetti ai lavori, ci si incontra, si commentano le visioni, ci sono anziani e bambini, è ancora una delle poche isole artistiche del possibile, oggi che il Teatro Valle chiude e a Roma tutto tace.

Serafino Mirante


martedì 17 maggio 2011

Improvvisamente l’estate scorsa, di Tennesse Williams, regia di Elio De Capitani

Quando il classico non ce la fa a diventare contemporaneo

di Fernanda Soana

Lo dico subito, non sono una fan di Tennesse Williams, trovo che l’autore americano, rispetto ad alcuni suoi illustri colleghi, quali O’Neill o Capote, non sia riuscito mai a superare un certo noioso e superficiale intellettualismo, mescolato ad uno snobistico amore per l’opera lirica e il melò. Mi capita di divertirmi a questo insensato miscuglio di psicanalisi divulgativa, alla Eric Fromm per intenderci, Violetta di Traviata e tragedia greca, solo quando guardo i film tratti dalle sue opere, grazie alle grandi interpretazioni delle stars di Hollywood, alle magnifiche ricostruzioni; al contrario, quando da seria e pretenziosa spettatrice mi siedo a teatro, tale forma di intrattenimento letteraria mi si mostra in tutta la sua assurda improbabilità.

Il melodramma Improvvisamente l’estate scorsa ha come protagonista Catherine (qui al Teatro Puccini interpretata da una bravissima Elena Russo Arman che riesce perfino a commuovermi, tanto è alta la sua aderenza al personaggio, anche nel bruttissimo monologo finale, dove l’autore vorrebbe farci credere che nel punto di incrocio tra psicanalisi e mito, la catarsi e la guarigione dalla follia possono accadere). Insomma, Catherine sembra essere impazzita dopo aver accompagnato il cugino Sebastian in un viaggio durante il quale egli muore in circostante alquanto misteriose. La madre di Sebastian tenta disperatamente di mantenere salda e priva di ombre la figura del figlio defunto, in modo che sia ricordato quale grande poeta. Minaccia di lobotomizzare Catherine e negare l’eredità alla madre e al fratello di questa se non ritrae la orribile storia sulla morte di Sebastian. A questo scopo interviene uno psichiatra di un manicomio cittadino, attirato dalla ingente somma di denaro che la vedova donerà all’ospedale in caso si attuasse la lobotomia sulla nipote, ma l’onesto psichiatra (interpretato da un monolitco Christian Giammarini che non riesce a dare neanche un’ ombra di ambiguità al personaggio) inietta alla giovane un siero della verità che permette a Catherine di confessare la truculenta morte del cugino, smembrato e divorato da ragazzi indigeni da cui aveva cercato favori sessuali, e ne confuta la pazzia. La ragazza rimessa a nuovo dalla confessione torna alla sua vita. Evidente è la missione del testo: una critica alla società perbenista americana conservatrice, dove l’apparire non deve mai svelare l’essere.

L’opera, pur attingendo elementi dalla vita privata dell’autore - sua sorella infatti fu costretta dalla madre dominante a sottoporsi a lobotomia - non riesce a restituire una realtà, ma rimane confinata dentro le mura del “genere melodramma” dai toni acidi e allucinatori.

Sappiamo infatti che Williams negli ultimi anni della sua vita soffriva di paranoie, era certo che dietro ogni evento pubblico si nascondesse qualcosa di buio e oscuro, soffriva di persecuzioni, gli era morto l’amore della sua vita: Frank Merlo, viveva tra libri di Rilke, col ventaglio di Crane (suo amato poeta) e il ritratto di Lawrence e gli piaceva dire che la sua scrittura fosse antinaturalistica e iperbolica, perché non amava il minimale realismo tanto in voga in quegli anni. In effetti la sua scrittura fatica a vivere del realismo, ma fatica a vivere anche di antinaturalismo, perché di stampo melodrammatico. Una soap ben scritta, un Balzac divulgativo e “piacionamente” contemporaneo, oserei dire.

Bene quindi l’idea del regista De Capitani di affrontare il testo partendo dalla bella sceneggiatura del film di Mankiewicz adattata per lo schermo dallo stesso Williams con Georg Vidal, con la traduzione di Masolino D’Amico, molto scorrevole, piena di ritmo, diretta senza freni verso il pubblico. Bene anche l’idea di accentuare il carattere omosessuale dell’opera, che fu molto censurata nei dialoghi all’epoca della Legione della Decenza, negli anni in cui fu scritta e portata in scena e al cinema. Bene anche la collocazione spaziale ( con le corrette scene di Sala e gli eleganti costumi di Bruni): il giardino della villa, amplificato di suoni e luci sinistri e gelidi, si trasforma in un ambiente da museo delle scienze naturali quasi selvaggio e esso stesso inquieto, i personaggi vengono mostrati quasi come fossero animali impagliati nelle sale di zoologia, emettono suoni registrati come fossero strani uccelli (gli avvoltoi che mangiano le tartarughe polinesiane, episodio che colpisce la fantasia già malata di Sebastian, gli indigeni che si gettano sul suo corpo nel racconto di Catherine). Questa scelta sembra servire al recupero di una certa epoca mitica, ancestrale ma anche legata alla scoperta dell’inconscio (ormai fin troppo scoperto ai tempi di Williams): questo l’ obiettivo più importante dello spettacolo, ma resta senza svolgimento, non apre una vera e propria lettura originale del testo. Forse perché i suoni e le luci vengono fin troppo spesso usati, finendo così per sminuire il loro significato di astrazione del dramma e sottolineando l’impossibilità del testo di aspirare alla tragedia o anche solo alla classicità del dramma borghese. Ma il grosso problema dello spettacolo risulta essere proprio la recitazione, lasciata alla libera capacità degli interpreti, che, senza una guida sicura, si legano a stereotipi, a toni fintamente realisti e troppo convenzionali. Eccetto la brava Russo Arman, gli altri sembrano recitare un qualsiasi feulletton di un qualsiasi theatre boulevardier: grossolana la figura tratteggiata dalla madre di Cristina Crippa, priva di ritmo, sfumature, addirittura l’attrice, la sera in cui ho assistito alla rappresentazione, dimenticava battute o mangiava quelle dei suoi colleghi; statico e immobile lo psichiatra di Giammarini, genericamente incazzato il fratello interpretato da un Ribatto da gioventù bruciata, Antinori ricalca la recitazione di stampo filodrammatico e sopra le righe, caricaturale la doppia figura della suora-governante di Sara Borsarelli.

De Capitani, che è regista e attore pieno di talento e sensibilità introspettiva, sembra essersi adeguato al gusto popolareggiante del suo pubblico. Non mette più in discussione, non si mette più in crisi. Lo spettacolo va da solo: basta una bella collocazione, luci e suoni suggestivi e degli attori generici che non si occupano di risolvere nessun problema insito nel testo (e in questo testo nemmeno Einstein o Leonardo sarebbero riusciti a risolverli tutti) per suscitare consensi e applausi trionfali. La compagnia sembra aver smarrito la funzione di un teatro che pone problemi e domande. Se il testo è bello la domanda la pone il testo stesso, la regia e la recitazione quasi mai. Se il testo non è bello lo spettacolo, pur curato e affascinante nell’immagine, risulta inutile e di banale intrattenimento. Perché? La compagnia dell’ Elfo, a mio avviso, si è rifugiata nel consenso immediato e ha smesso di dirigere la sua vocazione verso l’analisi e l’uso del teatro come strumento d’indagine. La compagnia ha lo spazio più bello della città e l’energia per farlo, quale pigrizia li spinge a non approfondire?

lunedì 16 maggio 2011

Festival Exister di danza contemporanea, edizione 2011: Destinazioni.

Giovane, italiana contemporanea e ironica.
di Cosimo Attico

DESTINAZIONI è l’ultima edizione del festival Exister che premia e mette in scena alcuni esponenti della giovane danza contemporanea. I sei gruppi vincitori del concorso hanno presentato i loro lavori, brevi pezzi di teatrodanza della durata variabile dai 3 ai 20 minuti, allo spazio Maisonfou di Milano, dopo un tour in altre piazze italiane e prima dell’edizione autunnale del festival.
Ora; essendo il sottoscritto inappropriato nell’analizzare i linguaggi e le istanze della danza contemporanea mi comporterò come uno spettatore teatrale che, arrivato un po’ per caso allo spazio Maisonfou di Milano il 15 maggio 2011, esercita la sua competenza teatrale in un codice differente dal teatro.
Mi perdonerà il lettore competente per eventuali inesattezze, ma il sottoscritto non ha potuto resistere alla tentazione di recensire questa silloge di brevi frammenti di contemporaneità, felice esito creativo del lavoro di questi artisti, e momento felicemente gradevole per la danza contemporanea milanese. Caratteristica comune ai pezzi presentati da Exister è la ricerca sul contenuto prima ancora che sulla forma, che diventa veicolo di un racconto mai estetizzato, aderente al reale da cui trae ispirazione.
Martina Cortellazzo, la prima ed esibirsi, ha presentato THE CUT_TUK SHOW, uno studio che partendo dalla gestualità precisa e meccanica dell’arte della cucina approda al gesto astratto della danza, interferenza che si inserisce quasi involontariamente nella ritualità del cucinare. Sul palco ci sono un tavolo di metallo, un fornello con l’acqua che bolle, gli ingredienti per preparare il “pollo marinato alla chutney di prugne e zenzero” e un pollo spennato con cui la danzatrice si relazionerà fino ad assumerne le movenze e quasi l’identità, scardinando quella che all’inizio sembrava essere una lezione di cucina, ora trasformata in una “Morte del Pollo” in tutù, con Cristiano Malgioio al posto di Tchaikovsky, spazzando via quella serietà da Gambero Rosso attraverso l’ironia noir della cuoca/danzatrice. Martina Cortellazzo si fa apprezzare per l’originalità dell’idea anche se la sua esecuzione risulta a tratti ripetitiva.
In un altro punto dello spazio Agostino Riola e Riccardo Fusiello presentano poi I WANNA. Fermi nell’angolo di un ipotetico bar, immobili e tesi, ci mostrano la tensione di due corpi attratti l’uno dall’altro ma frustrati in una immobilità che tradisce la paura, il desiderio, l’insicurezza, l’orgoglio con toccante concretezza. La scelta della musica pop anni Ottanta rende ancora più innaturale l’immobilità dei due corpi ( innaturalezza esplicitata dalla scritta i Love to dance sulla maglia di uno dei due). La sofferta e febbrile fissità di Agostino Riola, che si scioglie in una danza contro il muro (quel muro che gli è stato nido e certezza), solo alla fine del pezzo, è estremamente efficace, mentre la partitura fisica di Riccardo Fusiello risulta meno efficace e meno leggibile, quasi il virtuosismo tecnico di un danzatore che soffre non meno del suo personaggio la sua immobilità sulla scena.
Dopo la breve installazione di Sara Catellani, il duo Schuko con YO E CI mette in relazione su un palco vuoto una manga  con un pupazzo di pezza, indagando le due diverse attitudini nel movimento e nella relazione: morbida e dipendente dalla sua gravità quella del pupazzo, consapevole e compiaciuta quella della ragazzina. E mentre l’uno esiste nel momento in cui è sostenuto o in contatto con un altro corpo, l’altra prende vita quando qualcuno la guarda esibirsi in una danza codificata, che attinge alle movenze pop-emo del mondo a cui si ispira. 
Marco d’Agostin con VIOLA mette in scena il sofferto conflitto tra identità e rappresentazione di un corpo costretto ad esibire la propria virilità per arrivare poi a trasformarsi in un femminile livido e solitario, un sofferto Orlando woolfiano che si è volontariamente privato dei genitali per poter essere per un attimo quello che realmente sente di essere. Forse il sottoscritto è troppo reazionario, ma appartiene a quel gruppo di amanti della scena dal vivo che si turbano nel vedere un corpo che percuote se stesso, come arriva a fare Marco d’Agostin, forte e potente sul palco ma talvolta chiuso in una sofferenza da cui lo spettatore rischia di rimanere escluso.
Infine assistiamo a LEONI, in cui Matteo Fantoni dà vita ad un fragile amatoriale che trova nella danza il modo per superare i propri limiti e trovare un momento di abbandono e che con coraggio presenta sulla scena (con l’agitazione e la commozione di un debutto sul palco) la sua composizione. L’ironia dell’interprete e la sua delicatezza tratteggiano l’umanità del personaggio che si fa portatore di quel desiderio universale di abbandonarsi, dimentichi dei propri limiti, per trovare nella musica, nella danza, nella scena, nella comunicazione con una platea, nelle parole di una canzone, un momento di riscatto e di esistenza più vera della irrealtà del quotidiano. “Ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è”, canta Battisti nel pezzo di Fantoni, mentre il suo tragicomico personaggio resiste in modo commovente ad una vita che il danzatore ci fa immaginare, per concedersi questi venti minuti di Esistenza sul palco.
E in questo momento di crisi delle arti performative, fiaccate da politiche che non si occupano di garantire la sopravvivenza dello spettacolo dal vivo (come ha sottolineato con responsabilità all’inizio della serata la curatrice dell’evento), vedere realizzato sulla scena il disperato bisogno che ha l’uomo di fare teatro, di danzare, di alzare la musica fino ad assordare se stesso e lo spettatore, è un urlo di resistenza intelligente e semplice, come forse tanta cultura di ricerca ha dimenticato di poter essere, per arrivare all’emotività del pubblico meno consapevole. E le reazioni della platea, tra il pianto e la risata, fanno riflettere sulla possibilità che ancora ha la scena (anche quando rinuncia a confrontarsi con la complessità della parola o dell’astrazione gestuale) di essere catarsi per le emozioni condivise di un pubblico.
“La gioventù sorride senza ragione. È una delle sue grazie maggiori”, recita la citazione di Wilde proposta per introdurre la serata. Si ride molto, in tutti questi pezzi, ma la ragione del sorriso è assolutamente ragionevole e condivisibile: si sorride nel ritrarre l’umano, nelle sue declinazioni più buffe e fragili.
A detta di molta della nostra psicologia contemporanea la depressione (in inquietante crescita nella società liquida dell’incertezza) annulla l’umorismo; ma l’ironia, trait d’union di quasi tutti questi pezzi, non può che essere colta come un segno di rincuorante salute di artisti che non hanno ancora rinunciato a ridere dell’uomo e delle sue incoerenze.
Forse è mancato nel panorama della serata (considerato che il festival è detto “di danza contemporanea”) qualche momento squisitamente danzato, in cui l’originalità delle idee fosse affiancata da una più approfondita ricerca sul movimento e sulle sue possibilità. Luci e costumi erano in tutte le performance funzionali all’idea e al racconto, mentre le scelte musicali efficacemente popolari hanno contribuito a rendere facilmente godibile il lavoro degli artisti.
Pubblico giovane, apparentemente di addetti ai lavori. Peccato!
Nella semplicità e fruibilità delle proposte sarebbe stato bello vedere chi a teatro è solito non andare, ma che in questi corti avrebbe avuto un facile canale di ingresso nel mondo della danza contemporanea. Replica il 22 maggio a Milano, ad Assab One.

giovedì 12 maggio 2011

BLACKBIRD; David Harrower, regia di Lluis Pasqual

La bambina e l'uomo o il bambino e la donna? Un critico si interroga.

di Cosimo Attico

Iniziamo per una volta dal libretto di sala, nel quale il regista Lluis Pasqual, interrogato sulle ragioni della scelta di portare in scena Blackbird risponde che ci sono due modi di fare teatro politico: uno è prendere una posizione e comunicarla agli spettatori, l’altro scegliere un testo che tratta di un tema e non da un giudizio morale a riguardo. L’autore, David Harrower, uno dei nomi più importanti della drammaturgia scozzese contemporanea, scrive Blackbird (letteralmente merlo, o ragazzina) nel 2005, ispirandosi ad un fatto di cronaca di qualche anno prima: un uomo e una donna si incontrano una sera dopo anni di distanza sul posto di lavoro di lui, dove lei l’ha cercato. Potrebbe sembrare l’incontro di una coppia che si è amata e lasciata conservando del rancore e delle incomprensioni ma scopriamo invece dopo quasi mezz’ora di spettacolo che la relazione è avvenuta quindici anni quando la ragazza era dodicenne e l’uomo poco più che quarantenne, è durata tre mesi e finita con l’arresto di lui e la pubblica umiliazione di lei.

Ma torniamo per un attimo al libretto di sala: Pasqual dice che Harrower ci invita a “porci un gran numero di domande su un tema che appartiene antropologicamente al concetto di umanità, al quale non esistono risposte”. Seguendo l’invito dell’autore strutturerò questa mia recensione cercando di dare voce alle domande nate nel corso dello spettacolo.

Blackbird è una storia di abuso minorile? No. Il testo sembra porsi altre domande: Chi ha sedotto chi al tempo della relazione? In che cosa si distingue una relazione consenziente da un abuso? Dalla minore età di uno dei due? Ma chi è davvero l’adulto e chi l’infante? Che cosa fa soffrire la vittima? L’abuso o l’abbandono? Harrower affronta un tema impalpabile e doloroso come l’abuso minorile senza cercare vittime e carnefici, ma indagando le ragioni di uno e dell’altro, lontano da un giudizio o un’assoluzione morale. La scena di Paco Azorìn è composta una pedana sormontata da una stanza a vetri (un altrove che immaginiamo essere il posto di lavoro di lui) con qualche sedia, un bidone dell’immondizia (l’elemento meglio sfruttato dello spettacolo, quasi oggettivazione dell’impedimento di uno e dell’altro a muoversi con libertà nelle proprie vite), due contenitori: la scena è ora il ring, ora il palco da cui ciascuno due recita la propria autorappresentazione, ora la stanza metaforicamente claustrofobica da cui non si può uscire perché soffocati dalla sporcizia del ricordo, ora il campo di battaglia di due antieroi. Il pubblico sta tutto attorno, illuminato dalle luci di sala che si spengono solo per qualche minuto, in quei pochi istanti in cui il giudizio dell’esterno sembra lasciare posto all’immersione nel ricordo, e alle luci soffuse di Claudio de Pace. La visibilità degli spettatori sembra essere il segno della messa in piazza di una vicenda privata.

Lluis Pasqual sceglie di conservare il realismo del testo, anche attraverso i costumi di Chiara Donato. Ma parlando della regia torniamo alle domande: in cosa si differenzia quello che vediamo sulla scena da una normale relazione tra un uomo e una donna? Inoltre: quale elemento agisce dentro i due personaggi smuovendo le zolle che hanno leso l’identità di lei (che, additata come “troia” dagli estranei e dalla famiglia, ha finito per assumersi questo ruolo) e di lui (che dopo sei anni di carcere ha cambiato nome per poter continuare a vivere)? Assistiamo al racconto, alla rievocazione, ma si ha l’impressione che i personaggi usciranno di scena esattamente come ci sono entrati, che l’incontro non produrrà su di loro nessuna modificazione, nemmeno il blackout che lascia al buio la ragazza (come le era successo da bambina, abbandonata da lui in una camera d’albergo). Non è che forse la scelta di rinunciare ad una visione morale della vicenda (scelta assolutamente condivisibile ) è stata involontariamente accompagnata dalla rinuncia ad indagare gli aspetti più peculiari di questa storia trasformandola in una relazione d’amore come altre? In Popolizio l’assenza di giudizio morale lascia spesso il posto ad un’interessantissima ambiguità: ci si chiede cosa ci sia di vero in quello che racconta quest’uomo, se desidererà la figliastra con cui lo vediamo sgambettare fuori dalla scena alla fine dello spettacolo (la giovane Silvia Altrui). Ma talvolta l’ambiguità diventa in Popolizio l’ipertecnicismo di un virtuoso. Anna della Rosa si muove sulla scena con naturalezza e forza, è autentica e concreta anche nei momenti di lungaggine del testo, mai patetica e spesso ironica. Peccato che le manchi quella “stortura”, quella sporcizia che avrebbe potuto rendere più profonda la sua interpretazione ed eliminare la sensazione che talvolta affiora, di una ex ragazzina volitiva diventata donna nevrotica. Il sottoscritto non può fare a meno di pensare per un attimo a quando Carmen Maura diceva “quando ero piccola ho auto una relazione con papà” nella Legge del desiderio di Almodovar. Ma là vedevamo una donna irrecuperabilmente frantumata da quella “relazione”, qui vediamo un’adulta consapevole e arrabbiata. Encomiabile è la professionalità con cui entrambi gli interpreti resistono al vuoto di una regia che li lascia spesso soli con il testo (e alla pessima acustica del Piccolo teatro Studio), tutto quello che avviene sulla scena sembra scaturire da una tensione reale, al limite anche dell’improvvisato (cosa che però dà la sensazione di carenza di struttura).

Infine un commento personale, che esula dalla recensione. Per quanto lo spettacolo risenta talvolta di un eccesso di politically correct, rinunciando ad indagare la specificità della vicenda, è un piacere vedere per un’ora e mezza un uomo e una donna che sviscerano sulla scena le piaghe della loro reciprocità, lontano da urla politiche, lezioni di etica, satire anticontemporanee. Forse qualche artista pensa ancora che siamo, prima di tutto, esseri che desiderano e si scontrano con il proprio inconscio e la propria identità, prima che con gli slogan politici o i manifesti ideologici.

mercoledì 11 maggio 2011

Quando la mafia è il più banale dei mali.
Mamma Mafia di Federico Bellini, regia di Antonio Latella.

È un compito ingrato quello che si è prefissato Antonio Latella: portare la Mafia in scena, farlo all’estero, alla Schauspielhaus di Colonia. È un compito ingrato soprattutto perché le aspettative, la morbosa curiosità, i rischi da intraprendere sono alti: pochi sanno veramente come ha agito e agisce la mafia ed ad essa sono legati numerosi luoghi comuni e banalità. Cominciamo dalla scelta del titolo del testo, scritto da Federico Bellini con inserti di Giuseppe Massa e il contributo di Sybille Meier, Mamma Mafia. L’associazione del sostantivo Mamma alla mafia richiama lo status di quest’ultima che come la mamma cresce i sui piccoli e li protegge, pretende rispetto e devozione, è sempre presente nelle scelte importanti. Ma la mamma può essere anche l’Italia, luogo sicuro i cui traffici illeciti si ramificano e prendono piede. Un titolo-segno che ci introduce in questi tre atti recitati in lingua tedesca con interventi in siciliano e italiano, da un cast di attori italiani e tedeschi. Dopo un prologo in platea con luci di sala accese (tipico segno latelliano) ecco schierati gli attori in proscenio (altra scelta latelliana) che ci raccontano come una sorta di lezione, con tanto di video dietro che evidenzia frasi e parole più rilevanti, la storia della nascita della mafia e le sue varianti di significato e azione. Si comincia con una lettera di Saviano, si ascolta un animato cunto siciliano, le parole di Falcone e di alcuni magistrati antimafia, uno scritto di Pierpaolo Pasolini, ma sopratutto si subisce una vera e propria lezione. Scrivo subisce, perché in platea non accade nulla se non un ascolto passivo di una serie di ovvietà che aihmé forse sono necessarie per i tedeschi, ma non certo per gli italiani presenti. Era così necessaria la cosiddetta in gergo teatrale “spiega”? La mia è una provocazione ed una curiosità allo stesso tempo. Ma per fortuna le parole si interrompono e si entra in un'altra dimensione, forse la più riuscita, dove i corpi degli attori danno vita con una mirabile sequenza astratta, ad una sorta di danza dei coltelli. Per un attimo il pubblico sembra assistere ad un rito mafioso in cui gesti e azioni rimandano ad un mondo triviale, arcaico, in cui il gesto conta più della parola. Interessante, anche se già vista in spettacoli precedenti di Latella, la serie di ammiccamenti, suoni, richiami che ritmicamente gli attori alternano creando un tappeto sonoro di sicula memoria. E l'Italia è lì, una bellissima attrice tedesca che indossa un seducente body nero la cui coda ha i colori dell'Italia (Birgit Walter). È seduta al centro, per un attimo è la mamma, per un attimo sembra libera nella sua elegante solitudine, ma ecco che viene accerchiata dalla mafia, dai suoi figli: tanti Berlusconi che la seducono, la corrompono, la inghiottono. Le maschere di gomma del cavaliere si moltiplicano sulla scena, avanzano con antenne in mano, qualcuna straccia un giornale, qualcun'altra elenca gli innumerevoli possedimenti del premier e poi comincia la festa. Un balletto della Carrà, un trenino, l'ingresso di Ruby Rubacuori e la nostra Italia è un becero varietà di quarta categoria. Tutto vero, tutto tragicamente reale, ma estremamente banale e scontato. Mamma Mafia è uno spettacolo che sembra avere la pretesa di denunciare, di scandalizzare, ma non fa che offrire una visione superficiale della mafia, la più ovvia e la più nota: la mafia è fatta di uomini che fanno un patto di sangue e che uccidono altri uomini ingiustamente, la mafia è nella politica e nel potere, la mafia è al potere e l'Italia sta diventando come canale5. Non critico questo contenuto, che ripeto è noto, ma mi sorprende come Latella, che solitamente offre un immaginario ricco e dirompente sul mondo, questa volta abbia scelto la via più facile e dal discutibile gusto. Tutto sembra rimanere in superficie e non affondare mai. Persino la scenografia di Annelise Zaccheria con il bel fondale di un telo bianco circolare, è solo in parte sfruttata: le strutture in legno a misura di attore si uniscono e separano, ma non aggiungono nulla se non servire da ringhiera all'inizio e da tombe, nell'immagine finale in cui tutti sono morti e una metaforica Italia in lutto raccoglie in una busta di plastica le teste di Berlusconi (altra immagine già vista in Medea). Notevoli le luci di Simone De Angelis che accompagnano con sagacia la scena. Tra gli attori tedeschi segnaliamo Michael Weber, molto tecnico ma sempre vivo e presente, e Simon Eckert che con generosità e ironia interpreta anche la parte di Ruby. Tra gli italiani Marco Cacciola calca la scena con maestria, Rosario Tedesco, Giuseppe Lanino, Giuseppe Massa, Annibale Pavone, Maurizio Rippa sono forse un po' limitati dallo spettacolo ripetitivo e privo di occasioni attoriali. Mamma Mafia non è tra i migliori spettacoli di Latella a cui ho assistito, è privo di originalità e non offre un punto di vista, un pensiero critico. Forse in parte ne è responsabile la drammaturgia che affanna senza dar peso ad alcun aspetto della mafia, o forse il tema affrontato è troppo complesso e poco “teatralizzabile”. Sono tuttavia fiducioso che Latella saprà riprendere in mano la sua verve creativa e offrirci altri spettacoli degni della sua firma, da sempre interessante e fuori dal coro.

Serafino Mirante



lunedì 2 maggio 2011

Gramsci a Turi, di Antonio Tarantino, regia di Daniele Salvo

LA VITTIMA CHE DA SOLA SI SACRIFICA è SCOMODA ALL'ITALIA
di Fernanda Soana
Lo spettacolo Gramsci a Turi, diretto dal regista Daniele Salvo, è un lavoro complesso, a tratti suggestivo, in parte, a mio avviso, non risolto. Lo spettacolo tratta degli ultimi anni di prigionia prima della morte del noto intellettuale Antonio Gramsci, arrestato dalla polizia fascista nel 1926, processato da un Tribunale speciale e condannato a oltre 20 anni di carcere, morto per emorragia cerebrale nel ‘37 alla Clinica Quisisana di Roma. L’Italia chiude in una piccola scatola, non solo le ceneri di un uomo che la sofferenza, i torti subiti e la malattia avevano ridotto ad un corpicino esile non più capace di contenere la forza delle idee e la passione per una politica etica, ma soprattutto, per l’ennesima volta, le sue grandi e inaccettabili colpe. Gramsci aveva fotografato con grande obiettività la situazione politica italiana e le sue riflessioni giungono sino ai giorni nostri con un nitore e una chiarezza ai confini della preveggenza. Antonio Gramsci aveva individuato la crisi dello Stato-nazione, il distacco della dimensione spirituale da quella temporale che porterà lentamente ed inesorabilmente alla disintegrazione dello Stato moderno, aveva analizzato a fondo l’”americanismo”, sostenendo che l’America avrebbe di lì a poco costretto l’Europa a un “rivolgimento della propria assise economico-sociale troppo antiquata”, aveva percepito in pieno la trasformazione delle basi materiali della civiltà europea,prevedendo la formazione di una “nuova civiltà di cui saranno protagonisti i gruppi sociali delle nuove industrie”, aveva individuato l’irrimediabile crisi spirituale dell’uomo moderno, chiarendo i concetti e le differenze del “governare” e del “detenere il potere” nel nuovo Stato in disgregazione. (estratto dalle note di regia). Il testo di Tarantino tenta di suggerire al pubblico il mondo politico e carcerario poco raccomandabile in cui si muove spaesato Antontio Gramsci, attraverso una trentina di personaggi che si alternano in scene divise tra monologhi e dialoghi. Durante il calvario di Gramsci vediamo apparire oltre ai Capi di polizia, Direttori carcerari, Prigionieri politici e non, socialisti e anarchici, personaggi di spicco della politica del ventennio fascista: Mussolini, Togliatti, Sraffa e Bordiga. I personaggi si susseguono all’interno della struttura drammaturgica, seguendo forse (ma non è chiaro) la cronologia temporale della malattia di Gramsci. Portano i loro dubbi, le loro ragioni e soprattutto le oscure dinamiche che legano i partiti e le fazioni di destra, di centro e di sinistra dell’epoca. Tarantino sembra creare un parallelo tra il ventennio e i nostri giorni, gli schieramenti sono ambigui, i legami tra gli schieramenti molto più sotterranei e forti di quanto al popolo sia dato di vedere, i conflitti di potere all’interno degli schieramenti più pericolosi di quelli tra destra e sinistra. Con un monito terrorizzante: il fascismo continua a serpeggiare tra noi, non è finito, non è storia passata, la ripulitura e l’incapacità della sinistra italiana di essere veramente una sinistra alternativa al potere vigente, porta ad una stagnazione centrista ed assai inutilmente pericolosa. In mezzo a questa marea di relazioni sinistre, dove gli stessi Sraffa, Bordiga e Togliatti non sono esclusi dalle vischiose invidie del potere, si staglia la figura dignitosa e solitaria di Antonio Gramsci, vittima sacrificale del processo mimetico del potere, dove tutti sognano di essere al posto dell’altro, dove tutti litigano per imporre loro stessi, Gramsci sembra voler allontanare il fantasma della corruzione, e salvaguardarsi dall’odiosa pratica di accettazione di ogni scelta del partito, che causa cristallizzazione delle idee, congelamento del proprio pensiero, in nome di un pensiero collettivo o di una figura carismatica (Stalin o Togliatti poco importa) che rappresenti il Pensiero Unico del Partito. Gramsci è la cellula impazzita che non si schiera, nessuno (neppure il Duce) riesce a capire il suo movimento celebrale, è scomodo a destra, a sinistra, persino al centro, questa cellula cancerogena va evidentemente eliminata. Questo sembra suggerire il testo. Ma certe cose non quadrano. Intanto freno il mio giudizio sugli eventi che forse non si sono susseguiti veramente come Tarantino e Salvo vogliono mostrarci. L’interesse, credo, della scrittura (anche di quella scenica) è mostrarci il cancro del potere. La scena di Gianluca Sbicca che firma anche i costumi (filologici, molto belli e giusti per l’operazione) si compone di una serie di tavoli e sedie bianchi che distribuiti nei vari quadri in maniera quasi sempre differente compongono via via le diverse situazioni: il carcere, le varie stanze del potere, un locale molto in di Mosca, l’ospedale, una piazza di Napoli.... Questo continuo trasloco in realtà diventa quasi subito prevedibile e comporta una certa fatica da parte dello spettatore, perché rallenta ritmi e azione. Dietro la scena differenziata da una funzionale attrezzeria, un tulle che copre tutta la parete, dietro il quale compare spesso la stanza della sofferenza di Gramsci, sul tulle spesso vengono proiettati dei video, che hanno funzione esclusivamente didascalica e ci danno informazioni utili riguardanti i personaggi in scena. Il problema è che il didascalismo dei video si riflette anche sulle immagini scelte da proiettare, inutili ambientazioni, francamente prive di gusto. La scelta più importante della regia è quella di utilizzare maschere in lattice, disegnate da Guaschino, per tutti i personaggi fascisti o di destra, il volto naturale per Gramsci e i personaggi di sinistra. Se da una parte la maschera ci dà immediatamente un’atmosfera affascinante e anche giusta, perché capace di mostrarci la mostruosità e l’inadeguatezza dei personaggi rappresentati, dall’altra questa divisione così ideologica risulta priva di un vero fondamento, è come distinguere i buoni dai cattivi, ma è lo stesso Tarantino a ricordarci che tutti i caratteri rappresentati sono privi di un’autentica etica politica. Anche volendo giustificare la scelta per un ideologico schieramento politico, questa risulta non adatta al testo. Gli attori sono spesso bravi, soprattutto nel riempire le maschere. Vero è che all’inizio, la recitazione così grottesca e a tratti di stile ronconiano appiattisce il pensiero dei personaggi, mostrandoceli più stupidi di quanto siano scritti, dopo un po’ la scelta viene accettata dal pubblico e entra in un codice riconoscibile e metabolizzato. Molto bravo il direttore del carcere di Bonadei, che restituisce anche la figura di Togliatti con ambiguità e aria sinistra. Bene l’Amedeo Bordiga di De Filippo che riesce a mostrarci la passione politica, non negandoci tutte le contraddizioni insite nella figura di uno dei più importanti fautori del PCI. Un po’ troppo melodrammatico lo Sraffa di Fogacci, anche in questo caso ricordiamo la figura dell’economista molto più complessa e contraddittoria nella difficile gestione del rapporto tra il partito, lo stato e Gramsci, un po’ troppo caricaturale la figura di Mussolini, interpretata con sicura professionalità sempre da Fogacci. In generale gli attori tra cui Scarpinato, Sala e Melania Giglio (che tra i tanti personaggi, tratteggia con una passione troppo dimostrativa ma non priva di efficacia Tatiana Schucht - sorella della compagna di Gramsci - al suo capezzale) eseguono con efficacia i personaggi mascherati, ma con poca umanità quelli senza maschera. La parte più debole dello spettacolo è proprio quella di Gramsci, interpretato da Michele Maccagno: troppo artificiale la dimostrazione della malattia, troppo forti gli accenti melodrammatici, ma soprattutto un’esposizione di una bella tecnica ma senza ombra di una qualsiasi verità. Insomma se Gramsci rappresenta la vittima (consenziente o no, non si è capito) del sistema, Maccagno appare troppo emotivamente sterile, non aiutato dal costume imbottito che rappresenta il corpo gonfiato dalla malattia. Registicamente mi è piaciuta molto la scena ambientata in Russia, l’atmosfera di cospirazione e di ineluttabilità del destino dei politici verso la corruzione mi è parso uno dei momenti più belli di uno spettacolo che pecca solo di un po’ di superficialità e di un gusto non sempre appropriato nella scelta di video e delle musiche troppo da colonna sonora americana di Podda, ma è indubbia la capacità di gestire gli attori su una materia alquanto difficile. Peccato, perché dei momenti rimangono nella memoria dello spettatore. Forse una scelta meno ideologica e una recitazione più umana, soprattutto per la figura di Gramsci, avrebbe aiutato lo spettacolo, che comunque è stato molto apprezzato dagli spettatori in sala, e non disprezzato dalla medesima. Le luci un po’ troppo piatte nel creare atmosfere sono di Filipponio.



domenica 17 aprile 2011

Macadamia Nut Brittle, di Ricci/Forte

IL RITO DERITUALIZZATO:LA DERIVA DEL CONTEMPORANEO
di Fernanda Soana

Difficile è l’approccio, attraverso un’analisi critica, allo spettacolo degli artisti Ricci e Forte. Difficile il metodo analitico dove non esiste una vera materia d’analisi; il rischio dell’analista qui è quello di non comprendere appieno un “mondo teatrale” dove gli indigeni che lo abitano (gli attori) parlano la stessa lingua degli stranieri che lo visitano (il pubblico), dove l’apporto del critico, quello di creare un ponte linguistico tra lo spettacolo e lo spettatore è già abbattuto prima di essere costruito. Si può tentare di mettere in piedi un ragionamento, aldilà di ogni ideologia e di ogni giudizio legato al gusto? Non lo so, ci provo. Innanzitutto, come da copione di un filone della ricerca teatrale, non c’è una trama da seguire, né una grammatica o una logica da analizzare. Tutto l’esperimento vive in funzione della sua attività comunicativa, tutto ciò che viene detto e fatto è costruito in funzione dei bisogni del pubblico e, in questo caso bisogna dirlo, per compiacere un certo tipo di stampa che si aggira annoiata tra i salotti teatrali in cerca di qualcosa o di qualcuno che la risvegli dal letargo intellettuale nel quale si compiace di sostare. Ma anche questo è un giudizio e quindi una vanità di colei che scrive. In un’ora e mezza di spettacolo assistiamo alle prodezze di quattro generosissimi attori (Anna Gualdo, Fabio Gomiero, Andrea Pizzalis e Giuseppe Sartori a cui vanno i miei complimenti) che si muovono caotici nello spazio, parlando e spesso (ahimè) urlando attraverso l’ uso di microfono su asta, i propri dolori, gli amori infranti, le violenze subite dall’oggetto del desiderio, sogni, genitori assenti e... Isola dei Famosi, cronaca nera ma soprattutto rosa, citazioni tratte da cataloghi Ikea e slogan del MacDonald, vituperi contro Sanremo e contro il teatro (noioso e mortale) e chi più ne ha più ne metta perché ad un certo punto mi sono persa nel vorticoso ciclone di un oceano contemporaneo fatto di nudi, tentativi di sesso orale, anale, masturbazioni, uomini su tacchi a spillo, muffins prima ben sistemati con cura maniacale sul pavimento del teatro e poi inspiegabilmente spiaccicati (perché se il senso dello spiaccico era quello di non voler essere globalizzati dallo stesso global proposto, beh, mi scuseranno gli autori, ma era ben poca cosa). E infine, al culmine di un’ora e mezza tuonante di canzoni pop, rock, suoni, a volume da Number One, sotto una luce che spietatamente non cambia mai ( mi sono chiesta perché tanto spreco di elettricità visto il non esiguo numeri di proiettori usati per creare un unico e grande piazzato), uomini in mutande inondati di sangue da una donna (quanto maltrattata all’interno dello spettacolo lasciatemelo dire...) in tuta da fertilizzante e maschere dei Simpson (perché rinunciare ad un ennesima citazione? proprio non se ne poteva fare a meno?) che riposano in tende da campo-barbie (tombe di un occidente alla fine?) mentre la donna-simpson, poverina, resta sola fuori. Eppure il pubblico c’è, eppure il pubblico reagisce ridendo alle battute che livellano il maestro Catelan alle mise della Ventura. Un rito. Un’orgia. Un bisogno di catarsi. Il sangue attira l’uomo di oggi come un tempo attirava quello che scorreva nelle arene dei gladiatori. Un rito contemporaneo si dirà. No, perché lì il sangue scorreva veramente, mentre in questo spettacolo anche gli atti sessuali sono mimati, non esiste vero rapporto sessuale. Qui forse sta l’idea dei due registi-autori: in un mondo smitizzato, in un mondo di bassi riferimenti, in un mondo di solitudini, anche il sesso perde di senso. Si potrebbe suggerire ai registi di osare di più: o vera pornografia, o vera impossibilità del sesso, questa via di mezzo dell’oso ma non troppo, riduce fortemente la realtà di ciò che sta accadendo. Ricci e Forte scrivono con grande sagacia, ovvero dà l’impressione che sappiano continuamente ciò che stanno facendo, e a tratti i testi recitati, soprattutto nei momenti in cui gli attori singolarmente si avvicinano al microfono o si staccano dagli altri per dichiarare una mancanza, un disagio, non sono privi di efficacia drammaturgia e hanno una verità che in questo “oceano di banalità” direbbe un non noto drammaturgo francese, si perdono e si sfilacciano (ma anche questo è voluto per ricreare un global che tutto inghiotte). Il pubblico ci sta, nessuno si scandalizza, nessuno lascia la poltrona, il risveglio dei sensi dello spettatore imborghesito non è più un obiettivo della deriva della ricerca contemporanea. Quello di Ricci e Forte è un mondo che crea il proprio pubblico, attirato (come il bellissimo Zombie di Romero) dalle luci della rappresentazione, un pubblico che si rispecchia nel mondo-spettacolo. Un equivoco di shakespeare: il teatro è uno specchio della società, ma lo specchio non serve più a mostrarci l’immagine traslata che cambia il punto di vista di chi la guarda rispetto alla posizione che egli prende di fronte allo specchio, è solo un’immagine unica, piatta, spaventosa perché spaventosa è la reazione del pubblico che non assiste più alla decadenza, ma che vi partecipa docile e accondiscendente. Gioisce inspiegabilmente della propria. E’ un teatro questo senza più il pensiero. Un teatro di basse emozionalità. Un teatro che tenta di raccontare la deriva, adeguandosi esso stesso a quella deriva, un teatro senza analisi, senza moniti, ma non privo di una retorica tutta rococò quando ci racconta per la centesima volta quanto sia triste (e compiaciuta) la vita degli omosessuali in Italia (il mio pensiero durante quegli interminabili momenti andava agli struggenti film di Derek Jarman: cattedrali del pensiero e di un vero disagio omo-esistenziale). Qui invece... via il mito, via la perdita del mito, via l’assenza della perdita, ecco la contemporaneità allarmante e anestetizzante raccontata dal duo. Siamo alla fine della civiltà? Ci aspettano, come dopo le arene romane zozze di sangue, i circhi e le naumachie, e dopo la decadenza elisabettiana, anni e anni di solo teatro cattolico o puritano? Direi di no, forse ciò che ci aspetta è peggio, perché nel teatro che Ricci e Forte ci propongono, anche la serietà della morte del gladiatore sembra non poter aver più posto, anche gli estetizzanti tentativi dei post-elisabettiani vengono scavalcati dalle brutte immagini del nostro secolo. Se non c’è la morte (fortunatamente!) non potrà esserci dopo un Sant’Agostino a chiudere le porte dei teatri. Se non c’è lo scandalo di Ford che ci dichiara la bellezza dell’amore incestuoso, non ci sarà nessun ortodosso protestante a calare veli viola sui nostri teatri. A chiudere i teatri ci penserà il ministro del tesoro, e anche questo direbbero Ricci e Forte, è già un abbassamento. Ma una cosa dell’antico valore dei gladiatori resta: l’indomito coraggio degli attori, bravi e generosi nel mostrarci le loro ferite, non più schiavi dei patrizi costretti ad ammazzarsi, ma altrettanto schiavi delle basse paghe, delle cattive condizioni, schiavi del salario e del poco lavoro che li costringe a decisioni difficili, vite solitarie, inquiete e ben poco appaganti. I costumi, subito tolti agli attori, sono di Simone Valsecchi.