RIFLETTORI PUNTATI SULLA SCENA CONTEMPORANEA. RECENSIONI CRITICHE E ANALISI Dicesi critica l'insieme di analisi, interpretazioni e commenti relativi ad un'opera artistica.
sabato 22 ottobre 2011
Quando la cattiveria è sinonimo di grazia.
Scuola Sbroc: Pezzoli e il teatro dell’accadere.
lunedì 4 luglio 2011
SAGGI DI FINE CORSO: SCUOLA DEL PICCOLO TEATRO DI MILANO E TEATRO STABILE DI TORINO
A che serve essere giovani se il teatro è un mondo per vecchi
di Fernanda Soana
Mi è capitato, per una fortunata coincidenza, di assistere in questi giorni ai saggi di diploma della Scuola del Piccolo Teatro di Milano e a un saggio di fine secondo anno della Scuola del Teatro Stabile di Torino. Mi sono chiesta se fosse corretto parlare in questo blog di due saggi che non avevano la pretesa di essere considerati come produzioni da mostrare al pubblico, ma semmai esercitazioni in vista dell’entrata dei giovani attori nel mondo del lavoro. Mi sono decisa comunque a scrivere, non tanto una recensione, quanto una serie di pensieri che ho avuto rispetto alla generazione di attori che farà parte della cosiddetta scena contemporanea. Iniziamo con la Scuola del Piccolo. Ho assistito nella stessa giornata a due diversi saggi, il primo: un ennesimo Gabbiano di Cecov e il secondo: un meno scontato Platonov, sempre dello stesso autore.
Guardando il catalogo delle passate edizioni dei saggi, mi sono accorta, con stupore, che la Scuola del Piccolo finisce ogni triennio presentando quasi sempre un testo di Cecov a cura di Enrico D’Amato. Ho pensato allora che il regista-insegnante credesse fermamente, e anche io in parte ne sono convinta, che l’esercitazione degli allievi su questo autore possa aiutarli a risolvere grossi problemi di recitazione.
Quello a cui ho assistito ha però dello sbalorditivo. Intanto la scarna scena, fatta di sedie inizio secolo, un siparietto con proiezioni in stile Vecchio Munch e un piccolo palco, e gli eleganti ma consunti costumi della Spinatelli, non facevano presagire niente di buono e di nuovo, ma la cosa più straniante è stata la direzione dei giovani attori. Tutti ingabbiati in gesti, intonazioni, ritmi, e posture che fanno risalire il loro lavoro agli anni 50, ovvero alle prime regie di Strehler. Incredibilmente a tratti, qualche atonalità del Ronconi anni 70, in segno di rispetto e riconoscenza per il loro Direttore. Ora, pace all’anima buona del compianto Maestro e con tutto l’amore per Ronconi, mi chiedo come possano questi ragazzi affrontare il teatro che fuori della scuola li aspetta. Come potranno incontrare Latella, Binasco, Rifici, Dante, Cirillo, Malosti e tutti gli altri, se non attraverso dei traumatici risvegli dal lungo letargo scolastico. Come potranno considerarsi degli artisti se tra i loro riferimenti non ci sono i grandi registi della scena contemporanea: Marthaler, Ostermejer, ... Non posso chiaramente scrivere che la Scuola formi cattivi attori, non ho assistito al percorso pedagogico e artistico di questi tre anni, ma ciò che si può inquietamente affermare è che il loro biglietto da visita, quello scritto per loro dagli insegnanti, non mette in luce né il talento, né le possibilità espressive dei diplomati. Li schiaccia in una forma antica, bella e utile solo se vista al museo di storia del costume. Poi diciamocelo, un conto è la poesia di Strehler, o l’acuta osservazione di Ronconi, altra cosa è lo scimmiottamento. Mi verrebbe da consigliare, ad un teatro già in seria perdita di prestigio come quello del Piccolo, che è tempo di cambiare e di svecchiare struttura e metodologia. Non sono contro il passato, credo che sia giusto per i giovani attori incontrare attori del calibro di Nuti, Lazzarini e Giannotti, è giusto raccordarli ai grandi maestri del passato, ma ancora più giusto sarebbe aiutarli ad impossessarsi degli strumenti adatti per affrontare presente e futuro.
Auguro a questi ragazzi tutto il bene, per ora mi viene da suggerire ai registi due nomi: il giovane De Mojana, intelligente e curioso e la brava Rosellini, capace di dare se stessa persino in un saggio dove il lavoro dell’attore su di sé, il lavoro sui rapporti tra gli attori in scena e tra i personaggi, la vita insomma, non sono stati minimamente presi in considerazione.
Di altro spirito il saggio su Girotondo di Schnitzler a cura del nuovo direttore della scuola di Torino Walter Malosti, con l’aiuto prezioso del coreografo Alessio Maria Romano. Qui al contrario, energia pura e libera, fantasia sfrenata (ci hanno tenuto molto a sottolineare la natura autorale del lavoro, nato sulle improvvisazioni dei ragazzi poi guidate da Malosti). I corpi degli allievi devo dire sono sorprendentemente vivi e allenati, è un piacere vedere tanta energia sul palco, tanta voglia di fare. I venti ragazzi, divisi in due gruppi, hanno presentato due diverse versioni di Girotondo, ognuno apportando la propria personalità e la propria fantasia al servizio dello spettacolo, confezionato in modo molto pop dal regista. Certo, quest’operazione che avrei stroncato se fosse stata presentata come uno spettacolo vero, visto che non risolve neanche uno dei problemi di interpretazione posti dal grande Schnitzler, infarcita così com’è di gag, e goliardie, al contrario, l’appoggio pienamente come esercitazione: qui si vedono gli interpreti, si vede che cosa possono realmente dare, anzi risultano per lo più bravi, anche se un occhio attento riesce già a dividere quelli più deboli dagli altri francamente più pronti per la professione.
A Walter Malosti, che si sta dimostrando intelligente conoscitore di ciò che serve al teatro del futuro, portando i ragazzi ad avere corpi vivi e reattivi in scena, e voci piene ma non impostate, darei, se mi è lecito, un paio di consigli: il primo è di insistere su una dizione più pulita per alcuni dei ragazzi, l’altra è di non abbandonare il lavoro sul testo. Essendo lui un bravo regista di atmosfere e sperimentazioni sonore, dovrebbe farsi affiancare da qualche insegnante che si occupi di analisi del testo, qualche attore o regista (Popolizio? Binasco? Rifici?) che si distinguono per il loro lavoro sul personaggio.
Anche a questi ragazzi auguro tutto il bene e che riescano presto a incanalare la loro commovente energia nel lavoro, anche qui qualche nome che già si distingue per autonomia e bravura: Alice Spisa, Jacopo Squizzato, Christian Mariotti e Anna Charlotte Barbera (quando non esagera).
mercoledì 29 giugno 2011
UNA VALLE OCCUPATA DA SALVARE
mercoledì 22 giugno 2011
FRATEME, scritto e diretto da Benedetto Sicca
sabato 28 maggio 2011
RISPOSTA AD ANNA BANDETTINI- che si interroga sullo stato di salute della critica teatrale
La critica teatrale c’è o no? Così titola l’ultimo articolo che compare sul blog della giornalista di Repubblica Anna Bandettini.
Ricordo un episodio di qualche anno fa. In uno dei templi del teatro milanese, seduto a vedere lo spettacolo, assisto alla conversazione di due appassionate spettatrici non più giovani le quali, con ritaglio di giornale alla mano, pochi minuti prima delll’inizio dello spettacolo, si chiedevano se sarebbe stato brutto come la recensione diceva. Era un giornale importante, non c’era motivo di metterlo in discussione, soprattutto accettando la propria ignoranza in materia. E fin qui tutto normale. Ho chiesto alle signore di prestarmi il ritaglietto e ho letto la recensione. Non la trovai affatto negativa: si poteva cogliere un attacco abbastanza aggressivo alle politiche di quell’importante teatro, un pallido sostegno agli attori che meno appartenevano a quella struttura, l’elogio di una regia finalmente interessante in confronto alle altre produzioni del teatro. Non un accenno agli elementi dello spettacolo. Non una riga che aiutasse le signore nella fruizione del lavoro.
Cito quell’episodio ma potrei raccontarne molti altri. Se in quel momento avessi dovuto rispondere cos’è la critica avrei detto che era un giudizio su un lavoro complesso, messo in relazione con gli altri spettacoli presentati in quel teatro. Se in quel momento mi fossi domandato (e l’ho fatto) quale era l’utilità dell’operazione di critica la risposta sarebbe stata attribuire o negare un valore ad un progetto.
Ma quale potrebbe essere invece il ruolo della critica? Dicesi critica “insieme di analisi, interpretazioni e commenti relativi ad un’opera artistica”(Enciclopedia Zanichelli 1994) .
La critica teatrale potrebbe e dovrebbe essere un tramite tra linguaggi, uno strumento che dia le chiavi di accesso ad un pubblico per entrare nella lingua propria di quel lavoro. La critica potrebbe e dovrebbe inoltre essere un’analisi dettagliata del lavoro di quella traduzione intersemiotica che è la messa in scena, dovrebbe analizzare il lavoro fatto dall’equipe, e servire a regista attori e collaboratori come riscontro del lavoro fatto.
Certo, non sempre è possibile. Talvolta c’è ben poco da analizzare.
Ma gli elementi che intervengono in uno spettacolo sono tanti e complessi, dal testo di origine al testo spettacolare, al lavoro di interpretazione degli attori, il lavoro sul linguaggio, il rapporto con la contemporaneità, luci e costumi, prossemica spaziale, il movimento, gli effetti sonori e le musiche (e sono tutti gli elementi che tentiamo di analizzare in ogni scritto che pubblichiamo su teatroguardato).
Rispondo alla domanda senza risposte di Anna Bandettini: la critica non esiste più, non una critica adatta ai tempi. Con questo obiettivo abbiamo iniziato a scrivere questo blog: vogliamo essere un punto di riferimento che analizzi, interpreti e commenti la scena teatrale contemporanea.
Speriamo di riuscire nel nostro intento.
lunedì 23 maggio 2011
Brevi passeggiate alla Garbatella.
martedì 17 maggio 2011
Improvvisamente l’estate scorsa, di Tennesse Williams, regia di Elio De Capitani
Quando il classico non ce la fa a diventare contemporaneo
di Fernanda Soana
Lo dico subito, non sono una fan di Tennesse Williams, trovo che l’autore americano, rispetto ad alcuni suoi illustri colleghi, quali O’Neill o Capote, non sia riuscito mai a superare un certo noioso e superficiale intellettualismo, mescolato ad uno snobistico amore per l’opera lirica e il melò. Mi capita di divertirmi a questo insensato miscuglio di psicanalisi divulgativa, alla Eric Fromm per intenderci, Violetta di Traviata e tragedia greca, solo quando guardo i film tratti dalle sue opere, grazie alle grandi interpretazioni delle stars di Hollywood, alle magnifiche ricostruzioni; al contrario, quando da seria e pretenziosa spettatrice mi siedo a teatro, tale forma di intrattenimento letteraria mi si mostra in tutta la sua assurda improbabilità.
Il melodramma Improvvisamente l’estate scorsa ha come protagonista Catherine (qui al Teatro Puccini interpretata da una bravissima Elena Russo Arman che riesce perfino a commuovermi, tanto è alta la sua aderenza al personaggio, anche nel bruttissimo monologo finale, dove l’autore vorrebbe farci credere che nel punto di incrocio tra psicanalisi e mito, la catarsi e la guarigione dalla follia possono accadere). Insomma, Catherine sembra essere impazzita dopo aver accompagnato il cugino Sebastian in un viaggio durante il quale egli muore in circostante alquanto misteriose. La madre di Sebastian tenta disperatamente di mantenere salda e priva di ombre la figura del figlio defunto, in modo che sia ricordato quale grande poeta. Minaccia di lobotomizzare Catherine e negare l’eredità alla madre e al fratello di questa se non ritrae la orribile storia sulla morte di Sebastian. A questo scopo interviene uno psichiatra di un manicomio cittadino, attirato dalla ingente somma di denaro che la vedova donerà all’ospedale in caso si attuasse la lobotomia sulla nipote, ma l’onesto psichiatra (interpretato da un monolitco Christian Giammarini che non riesce a dare neanche un’ ombra di ambiguità al personaggio) inietta alla giovane un siero della verità che permette a Catherine di confessare la truculenta morte del cugino, smembrato e divorato da ragazzi indigeni da cui aveva cercato favori sessuali, e ne confuta la pazzia. La ragazza rimessa a nuovo dalla confessione torna alla sua vita. Evidente è la missione del testo: una critica alla società perbenista americana conservatrice, dove l’apparire non deve mai svelare l’essere.
L’opera, pur attingendo elementi dalla vita privata dell’autore - sua sorella infatti fu costretta dalla madre dominante a sottoporsi a lobotomia - non riesce a restituire una realtà, ma rimane confinata dentro le mura del “genere melodramma” dai toni acidi e allucinatori.
Sappiamo infatti che Williams negli ultimi anni della sua vita soffriva di paranoie, era certo che dietro ogni evento pubblico si nascondesse qualcosa di buio e oscuro, soffriva di persecuzioni, gli era morto l’amore della sua vita: Frank Merlo, viveva tra libri di Rilke, col ventaglio di Crane (suo amato poeta) e il ritratto di Lawrence e gli piaceva dire che la sua scrittura fosse antinaturalistica e iperbolica, perché non amava il minimale realismo tanto in voga in quegli anni. In effetti la sua scrittura fatica a vivere del realismo, ma fatica a vivere anche di antinaturalismo, perché di stampo melodrammatico. Una soap ben scritta, un Balzac divulgativo e “piacionamente” contemporaneo, oserei dire.
Bene quindi l’idea del regista De Capitani di affrontare il testo partendo dalla bella sceneggiatura del film di Mankiewicz adattata per lo schermo dallo stesso Williams con Georg Vidal, con la traduzione di Masolino D’Amico, molto scorrevole, piena di ritmo, diretta senza freni verso il pubblico. Bene anche l’idea di accentuare il carattere omosessuale dell’opera, che fu molto censurata nei dialoghi all’epoca della Legione della Decenza, negli anni in cui fu scritta e portata in scena e al cinema. Bene anche la collocazione spaziale ( con le corrette scene di Sala e gli eleganti costumi di Bruni): il giardino della villa, amplificato di suoni e luci sinistri e gelidi, si trasforma in un ambiente da museo delle scienze naturali quasi selvaggio e esso stesso inquieto, i personaggi vengono mostrati quasi come fossero animali impagliati nelle sale di zoologia, emettono suoni registrati come fossero strani uccelli (gli avvoltoi che mangiano le tartarughe polinesiane, episodio che colpisce la fantasia già malata di Sebastian, gli indigeni che si gettano sul suo corpo nel racconto di Catherine). Questa scelta sembra servire al recupero di una certa epoca mitica, ancestrale ma anche legata alla scoperta dell’inconscio (ormai fin troppo scoperto ai tempi di Williams): questo l’ obiettivo più importante dello spettacolo, ma resta senza svolgimento, non apre una vera e propria lettura originale del testo. Forse perché i suoni e le luci vengono fin troppo spesso usati, finendo così per sminuire il loro significato di astrazione del dramma e sottolineando l’impossibilità del testo di aspirare alla tragedia o anche solo alla classicità del dramma borghese. Ma il grosso problema dello spettacolo risulta essere proprio la recitazione, lasciata alla libera capacità degli interpreti, che, senza una guida sicura, si legano a stereotipi, a toni fintamente realisti e troppo convenzionali. Eccetto la brava Russo Arman, gli altri sembrano recitare un qualsiasi feulletton di un qualsiasi theatre boulevardier: grossolana la figura tratteggiata dalla madre di Cristina Crippa, priva di ritmo, sfumature, addirittura l’attrice, la sera in cui ho assistito alla rappresentazione, dimenticava battute o mangiava quelle dei suoi colleghi; statico e immobile lo psichiatra di Giammarini, genericamente incazzato il fratello interpretato da un Ribatto da gioventù bruciata, Antinori ricalca la recitazione di stampo filodrammatico e sopra le righe, caricaturale la doppia figura della suora-governante di Sara Borsarelli.
De Capitani, che è regista e attore pieno di talento e sensibilità introspettiva, sembra essersi adeguato al gusto popolareggiante del suo pubblico. Non mette più in discussione, non si mette più in crisi. Lo spettacolo va da solo: basta una bella collocazione, luci e suoni suggestivi e degli attori generici che non si occupano di risolvere nessun problema insito nel testo (e in questo testo nemmeno Einstein o Leonardo sarebbero riusciti a risolverli tutti) per suscitare consensi e applausi trionfali. La compagnia sembra aver smarrito la funzione di un teatro che pone problemi e domande. Se il testo è bello la domanda la pone il testo stesso, la regia e la recitazione quasi mai. Se il testo non è bello lo spettacolo, pur curato e affascinante nell’immagine, risulta inutile e di banale intrattenimento. Perché? La compagnia dell’ Elfo, a mio avviso, si è rifugiata nel consenso immediato e ha smesso di dirigere la sua vocazione verso l’analisi e l’uso del teatro come strumento d’indagine. La compagnia ha lo spazio più bello della città e l’energia per farlo, quale pigrizia li spinge a non approfondire?
lunedì 16 maggio 2011
Festival Exister di danza contemporanea, edizione 2011: Destinazioni.
giovedì 12 maggio 2011
BLACKBIRD; David Harrower, regia di Lluis Pasqual
La bambina e l'uomo o il bambino e la donna? Un critico si interroga.
di Cosimo Attico
Iniziamo per una volta dal libretto di sala, nel quale il regista Lluis Pasqual, interrogato sulle ragioni della scelta di portare in scena Blackbird risponde che ci sono due modi di fare teatro politico: uno è prendere una posizione e comunicarla agli spettatori, l’altro scegliere un testo che tratta di un tema e non da un giudizio morale a riguardo. L’autore, David Harrower, uno dei nomi più importanti della drammaturgia scozzese contemporanea, scrive Blackbird (letteralmente merlo, o ragazzina) nel 2005, ispirandosi ad un fatto di cronaca di qualche anno prima: un uomo e una donna si incontrano una sera dopo anni di distanza sul posto di lavoro di lui, dove lei l’ha cercato. Potrebbe sembrare l’incontro di una coppia che si è amata e lasciata conservando del rancore e delle incomprensioni ma scopriamo invece dopo quasi mezz’ora di spettacolo che la relazione è avvenuta quindici anni quando la ragazza era dodicenne e l’uomo poco più che quarantenne, è durata tre mesi e finita con l’arresto di lui e la pubblica umiliazione di lei.
Ma torniamo per un attimo al libretto di sala: Pasqual dice che Harrower ci invita a “porci un gran numero di domande su un tema che appartiene antropologicamente al concetto di umanità, al quale non esistono risposte”. Seguendo l’invito dell’autore strutturerò questa mia recensione cercando di dare voce alle domande nate nel corso dello spettacolo.
Blackbird è una storia di abuso minorile? No. Il testo sembra porsi altre domande: Chi ha sedotto chi al tempo della relazione? In che cosa si distingue una relazione consenziente da un abuso? Dalla minore età di uno dei due? Ma chi è davvero l’adulto e chi l’infante? Che cosa fa soffrire la vittima? L’abuso o l’abbandono? Harrower affronta un tema impalpabile e doloroso come l’abuso minorile senza cercare vittime e carnefici, ma indagando le ragioni di uno e dell’altro, lontano da un giudizio o un’assoluzione morale. La scena di Paco Azorìn è composta una pedana sormontata da una stanza a vetri (un altrove che immaginiamo essere il posto di lavoro di lui) con qualche sedia, un bidone dell’immondizia (l’elemento meglio sfruttato dello spettacolo, quasi oggettivazione dell’impedimento di uno e dell’altro a muoversi con libertà nelle proprie vite), due contenitori: la scena è ora il ring, ora il palco da cui ciascuno due recita la propria autorappresentazione, ora la stanza metaforicamente claustrofobica da cui non si può uscire perché soffocati dalla sporcizia del ricordo, ora il campo di battaglia di due antieroi. Il pubblico sta tutto attorno, illuminato dalle luci di sala che si spengono solo per qualche minuto, in quei pochi istanti in cui il giudizio dell’esterno sembra lasciare posto all’immersione nel ricordo, e alle luci soffuse di Claudio de Pace. La visibilità degli spettatori sembra essere il segno della messa in piazza di una vicenda privata.
Lluis Pasqual sceglie di conservare il realismo del testo, anche attraverso i costumi di Chiara Donato. Ma parlando della regia torniamo alle domande: in cosa si differenzia quello che vediamo sulla scena da una normale relazione tra un uomo e una donna? Inoltre: quale elemento agisce dentro i due personaggi smuovendo le zolle che hanno leso l’identità di lei (che, additata come “troia” dagli estranei e dalla famiglia, ha finito per assumersi questo ruolo) e di lui (che dopo sei anni di carcere ha cambiato nome per poter continuare a vivere)? Assistiamo al racconto, alla rievocazione, ma si ha l’impressione che i personaggi usciranno di scena esattamente come ci sono entrati, che l’incontro non produrrà su di loro nessuna modificazione, nemmeno il blackout che lascia al buio la ragazza (come le era successo da bambina, abbandonata da lui in una camera d’albergo). Non è che forse la scelta di rinunciare ad una visione morale della vicenda (scelta assolutamente condivisibile ) è stata involontariamente accompagnata dalla rinuncia ad indagare gli aspetti più peculiari di questa storia trasformandola in una relazione d’amore come altre? In Popolizio l’assenza di giudizio morale lascia spesso il posto ad un’interessantissima ambiguità: ci si chiede cosa ci sia di vero in quello che racconta quest’uomo, se desidererà la figliastra con cui lo vediamo sgambettare fuori dalla scena alla fine dello spettacolo (la giovane Silvia Altrui). Ma talvolta l’ambiguità diventa in Popolizio l’ipertecnicismo di un virtuoso. Anna della Rosa si muove sulla scena con naturalezza e forza, è autentica e concreta anche nei momenti di lungaggine del testo, mai patetica e spesso ironica. Peccato che le manchi quella “stortura”, quella sporcizia che avrebbe potuto rendere più profonda la sua interpretazione ed eliminare la sensazione che talvolta affiora, di una ex ragazzina volitiva diventata donna nevrotica. Il sottoscritto non può fare a meno di pensare per un attimo a quando Carmen Maura diceva “quando ero piccola ho auto una relazione con papà” nella Legge del desiderio di Almodovar. Ma là vedevamo una donna irrecuperabilmente frantumata da quella “relazione”, qui vediamo un’adulta consapevole e arrabbiata. Encomiabile è la professionalità con cui entrambi gli interpreti resistono al vuoto di una regia che li lascia spesso soli con il testo (e alla pessima acustica del Piccolo teatro Studio), tutto quello che avviene sulla scena sembra scaturire da una tensione reale, al limite anche dell’improvvisato (cosa che però dà la sensazione di carenza di struttura).
Infine un commento personale, che esula dalla recensione. Per quanto lo spettacolo risenta talvolta di un eccesso di politically correct, rinunciando ad indagare la specificità della vicenda, è un piacere vedere per un’ora e mezza un uomo e una donna che sviscerano sulla scena le piaghe della loro reciprocità, lontano da urla politiche, lezioni di etica, satire anticontemporanee. Forse qualche artista pensa ancora che siamo, prima di tutto, esseri che desiderano e si scontrano con il proprio inconscio e la propria identità, prima che con gli slogan politici o i manifesti ideologici.
mercoledì 11 maggio 2011
lunedì 2 maggio 2011
Gramsci a Turi, di Antonio Tarantino, regia di Daniele Salvo
domenica 17 aprile 2011
Macadamia Nut Brittle, di Ricci/Forte
Difficile è l’approccio, attraverso un’analisi critica, allo spettacolo degli artisti Ricci e Forte. Difficile il metodo analitico dove non esiste una vera materia d’analisi; il rischio dell’analista qui è quello di non comprendere appieno un “mondo teatrale” dove gli indigeni che lo abitano (gli attori) parlano la stessa lingua degli stranieri che lo visitano (il pubblico), dove l’apporto del critico, quello di creare un ponte linguistico tra lo spettacolo e lo spettatore è già abbattuto prima di essere costruito. Si può tentare di mettere in piedi un ragionamento, aldilà di ogni ideologia e di ogni giudizio legato al gusto? Non lo so, ci provo. Innanzitutto, come da copione di un filone della ricerca teatrale, non c’è una trama da seguire, né una grammatica o una logica da analizzare. Tutto l’esperimento vive in funzione della sua attività comunicativa, tutto ciò che viene detto e fatto è costruito in funzione dei bisogni del pubblico e, in questo caso bisogna dirlo, per compiacere un certo tipo di stampa che si aggira annoiata tra i salotti teatrali in cerca di qualcosa o di qualcuno che la risvegli dal letargo intellettuale nel quale si compiace di sostare. Ma anche questo è un giudizio e quindi una vanità di colei che scrive. In un’ora e mezza di spettacolo assistiamo alle prodezze di quattro generosissimi attori (Anna Gualdo, Fabio Gomiero, Andrea Pizzalis e Giuseppe Sartori a cui vanno i miei complimenti) che si muovono caotici nello spazio, parlando e spesso (ahimè) urlando attraverso l’ uso di microfono su asta, i propri dolori, gli amori infranti, le violenze subite dall’oggetto del desiderio, sogni, genitori assenti e... Isola dei Famosi, cronaca nera ma soprattutto rosa, citazioni tratte da cataloghi Ikea e slogan del MacDonald, vituperi contro Sanremo e contro il teatro (noioso e mortale) e chi più ne ha più ne metta perché ad un certo punto mi sono persa nel vorticoso ciclone di un oceano contemporaneo fatto di nudi, tentativi di sesso orale, anale, masturbazioni, uomini su tacchi a spillo, muffins prima ben sistemati con cura maniacale sul pavimento del teatro e poi inspiegabilmente spiaccicati (perché se il senso dello spiaccico era quello di non voler essere globalizzati dallo stesso global proposto, beh, mi scuseranno gli autori, ma era ben poca cosa). E infine, al culmine di un’ora e mezza tuonante di canzoni pop, rock, suoni, a volume da Number One, sotto una luce che spietatamente non cambia mai ( mi sono chiesta perché tanto spreco di elettricità visto il non esiguo numeri di proiettori usati per creare un unico e grande piazzato), uomini in mutande inondati di sangue da una donna (quanto maltrattata all’interno dello spettacolo lasciatemelo dire...) in tuta da fertilizzante e maschere dei Simpson (perché rinunciare ad un ennesima citazione? proprio non se ne poteva fare a meno?) che riposano in tende da campo-barbie (tombe di un occidente alla fine?) mentre la donna-simpson, poverina, resta sola fuori. Eppure il pubblico c’è, eppure il pubblico reagisce ridendo alle battute che livellano il maestro Catelan alle mise della Ventura. Un rito. Un’orgia. Un bisogno di catarsi. Il sangue attira l’uomo di oggi come un tempo attirava quello che scorreva nelle arene dei gladiatori. Un rito contemporaneo si dirà. No, perché lì il sangue scorreva veramente, mentre in questo spettacolo anche gli atti sessuali sono mimati, non esiste vero rapporto sessuale. Qui forse sta l’idea dei due registi-autori: in un mondo smitizzato, in un mondo di bassi riferimenti, in un mondo di solitudini, anche il sesso perde di senso. Si potrebbe suggerire ai registi di osare di più: o vera pornografia, o vera impossibilità del sesso, questa via di mezzo dell’oso ma non troppo, riduce fortemente la realtà di ciò che sta accadendo. Ricci e Forte scrivono con grande sagacia, ovvero dà l’impressione che sappiano continuamente ciò che stanno facendo, e a tratti i testi recitati, soprattutto nei momenti in cui gli attori singolarmente si avvicinano al microfono o si staccano dagli altri per dichiarare una mancanza, un disagio, non sono privi di efficacia drammaturgia e hanno una verità che in questo “oceano di banalità” direbbe un non noto drammaturgo francese, si perdono e si sfilacciano (ma anche questo è voluto per ricreare un global che tutto inghiotte). Il pubblico ci sta, nessuno si scandalizza, nessuno lascia la poltrona, il risveglio dei sensi dello spettatore imborghesito non è più un obiettivo della deriva della ricerca contemporanea. Quello di Ricci e Forte è un mondo che crea il proprio pubblico, attirato (come il bellissimo Zombie di Romero) dalle luci della rappresentazione, un pubblico che si rispecchia nel mondo-spettacolo. Un equivoco di shakespeare: il teatro è uno specchio della società, ma lo specchio non serve più a mostrarci l’immagine traslata che cambia il punto di vista di chi la guarda rispetto alla posizione che egli prende di fronte allo specchio, è solo un’immagine unica, piatta, spaventosa perché spaventosa è la reazione del pubblico che non assiste più alla decadenza, ma che vi partecipa docile e accondiscendente. Gioisce inspiegabilmente della propria. E’ un teatro questo senza più il pensiero. Un teatro di basse emozionalità. Un teatro che tenta di raccontare la deriva, adeguandosi esso stesso a quella deriva, un teatro senza analisi, senza moniti, ma non privo di una retorica tutta rococò quando ci racconta per la centesima volta quanto sia triste (e compiaciuta) la vita degli omosessuali in Italia (il mio pensiero durante quegli interminabili momenti andava agli struggenti film di Derek Jarman: cattedrali del pensiero e di un vero disagio omo-esistenziale). Qui invece... via il mito, via la perdita del mito, via l’assenza della perdita, ecco la contemporaneità allarmante e anestetizzante raccontata dal duo. Siamo alla fine della civiltà? Ci aspettano, come dopo le arene romane zozze di sangue, i circhi e le naumachie, e dopo la decadenza elisabettiana, anni e anni di solo teatro cattolico o puritano? Direi di no, forse ciò che ci aspetta è peggio, perché nel teatro che Ricci e Forte ci propongono, anche la serietà della morte del gladiatore sembra non poter aver più posto, anche gli estetizzanti tentativi dei post-elisabettiani vengono scavalcati dalle brutte immagini del nostro secolo. Se non c’è la morte (fortunatamente!) non potrà esserci dopo un Sant’Agostino a chiudere le porte dei teatri. Se non c’è lo scandalo di Ford che ci dichiara la bellezza dell’amore incestuoso, non ci sarà nessun ortodosso protestante a calare veli viola sui nostri teatri. A chiudere i teatri ci penserà il ministro del tesoro, e anche questo direbbero Ricci e Forte, è già un abbassamento. Ma una cosa dell’antico valore dei gladiatori resta: l’indomito coraggio degli attori, bravi e generosi nel mostrarci le loro ferite, non più schiavi dei patrizi costretti ad ammazzarsi, ma altrettanto schiavi delle basse paghe, delle cattive condizioni, schiavi del salario e del poco lavoro che li costringe a decisioni difficili, vite solitarie, inquiete e ben poco appaganti. I costumi, subito tolti agli attori, sono di Simone Valsecchi.