sabato 22 ottobre 2011

Quando la cattiveria è sinonimo di grazia.

Sonata per ragazza sola da Irène Némirovsky, progetto di Federica Bern e Francesco Villano

di Fernanda Soana
Nella bella sala della Cavallerizza del Teatro Litta è in scena in questi giorni uno spettacolo pieno di grazia e leggerezza. Si tratta di Sonata per ragazza sola, interpretato dalla brava Federica Bern e diretto dall’altrettanto bravo Francesco Villano. Lo spettacolo è una vera delizia. Intanto perché si basa sui testi della grandissima Irène Nèmirovsky, morta ad Auschwitz nel 1942, della quale siamo fortunatamente venuti in possesso delle sue opere, grazie al lavoro certosino delle sue due figlie scampate al campo di concentramento e che si sono occupate in questi anni di ritrovare, rimaneggiare, pubblicare e scrivere saggi sulla propria grande madre. Grande nell’arte e nella vita.
La scrittura della poetessa è complessa e al tempo stesso leggera, ironica e cattiva, ma piena di aperture. Come non commuoversi di fronte al finale pieno di speranza e di luce di Suite Francese, scritto dall’autrice nella piena consapevolezza che i nazisti stavano per venire a prenderla? Doppiamente bravi quindi Bern e Villano nell’aver deciso di portare al pubblico un rimaneggiamento delle sue opere, tra le quali emergono con evidenza i personaggi di Jezabel e soprattutto dell’irresistibile Il ballo. La trama e la sottile e raffinata ironia dello spettacolo rubano soprattutto a quest’ultimo testo.
La trama è questa, una bambina (la stessa Irène) vive fortemente il conflitto e il confronto con la madre, donna vanitosa e capricciosa, sposata ad un ebreo che ha fatto fortuna e desiderosa di entrare nell’alta società per vivere da protagonista la sua vita prima che la matura età porti via bellezza e giovinezza. La bambina vive all’ombra della madre, che non mostra nessun affetto per la piccola, me le due donne condividono le stesse frustrazioni, i desideri di affermazione, i desideri repressi, gli egoismi. La bambina, a cui è stato negato di partecipare al ballo indetto dalla madre per entrare finalmente nella Grande Société, si vendica stracciando gli inviti che ella stessa doveva spedire. Il finale è esilarante, la madre si trova a dover interagire con l’unica persona che ha ricevuto l’invito e si è presentata alla serata, la cattivissima insegnante di piano della figlia, e lo sciocco marito, dovendo così salutare per sempre i suoi sogni di gloria. La bambina soddisfatta può finalmente entrare nell’orribile mondo degli adulti.
Bravissima Federica Bern a interpretare il doppio ruolo di madre e figlia e i ruoli minori. Bravissima perché non cade nella tentazione di caratterizzare i ruoli, rimane invece sempre se stessa, mettendo al servizio dello spettacolo la sua freschezza, i suoi notevoli mezzi espressivi, grazia ed eleganza, cattiveria e ironia.
Il disegno registico è molto appropriato, giusto per Villano, il quale da attore si è preoccupato più della recitazione della Bern che di un allestimento e di un’analisi critica del testo. In scena, su una pedana, ci sono solo l’attrice, uno sgabello, un finto pianoforte, un vestito da ballo su un manichino. L’attrice appare dietro un sipario rosso, con appesi al collo gli inviti della madre, come fossero una pietra da usare per il suo prossimo suicidio. Bellissimo il momento in cui la bambina, stanca di questa vita nell’ombra, decide di suicidarsi passando in rassegna tutti i suicidi delle eroine letterarie, da Emma ad Anna,... gioco raffinato e di grande pregio stilistico. Bellissimo il momento in cui la Bern diventa la madre, mostrando una grande capacità tecnica nel recitare la parte mentre si fa avvolgere da una chilometrica collana di perle, simbolo della sua vanità e della sua stessa prigionia. Ottime le soluzioni nel portare in scena gli altri personaggi, con l’evocazione di piccolo gesti, o bigliettini da visita che mostrano il cambio di personaggio. Ben fatto, ben pensato, pensato con il cuore e con un serio percorso. La Bern fa vivere con ilarità la sfida tra le due donne (il testo è autobiografico, la madre della Némirovsky era veramente un’orribile donna che non ha voluto nemmeno aiutare le sue nipoti dopo che la figlia era stata deportata), eseguendo con grazie il percorso quasi geometrico di tragitti, ritmi e movimenti creati insieme a Villano, per mostrare i desideri che si combattono, si uniscono, si spezzano. La gestualità è precisa, appropriata, solo a tratti diventano noiosi i percorsi che si ripetono sempre uguali. Ma Villano mostra una grande attenzione al lato umano delle due donne e quindi gli si perdono delle piccolo ingenuità registiche. Il lavoro è veramente ben fatto.
L’unico appunto che mi viene da fare è alle note di regia.
I due artisti ci tengono a sottolineare l’attualità del testo, dato dall’edonismo galoppante dei nostri tempi, e la grottesca caricatura dell’ amore per la rappresentazione di se stessi. Cercano di giustificare la scelta di un testo non proprio attuale, tentando di raccontare attraverso esso il contemporaneo. Lo fanno fortunatamente solo nelle note di regia, non nello spettacolo. Dico fortunatamente perché non ce n’era assolutamente bisogno. La scrittura è quanto più lontana dalla barbarie dei nostri tempi. Anche se c’è vanità ed edonismo, il rapporto tra noi e lei è impossibile. La scrittura è alta, stratificata, ironica, cattiva contro la stessa autrice, è una scrittura che non fa sconti a nessuno, al contrario di alcuni testi dei nostri tempi. Il testo non è contemporaneo. Mi viene da pensare che non ci sia nulla di male. Mi viene da suggerire che è bello per due giovani artisti accostarsi alla grande letteratura, anche se non racconta la crisi del nostro tempo, non racconta guai politici o caos contemporanei. Quando una cosa è grande, resta grande, senza bisogno di giustificazioni. Bravi.

Scuola Sbroc: Pezzoli e il teatro dell’accadere.

Le possibilità (e impossibilità) del teatro
di Fernanda Soana
E’ noto a tutti i teatranti italiani il lavoro di pedagogia teatrale che da molti anni la regista Cristina Pezzoli porta avanti con grande impegno e dedizione. Il suo è un lavoro che mescola realtà e palcoscenico, teatro e politica. La regista sembra volerci dire che solo un teatro che accade veramente, un teatro del “qui e ora”, un teatro senza paracadute e senza reti di protezione, senza struttura insomma, possa essere politicamente pericoloso. Inizia qualche anno fa il suo sodalizio artistico con la drammaturga Letizia Russo, con il bellissimo “Tomba di cani”. Le due perseguono insieme la ricerca di un modo di fare teatro sganciato dagli obblighi di produzione, dalla consegna di un lavoro finito e terminato, dalla partitura scenografica e attoriale, che costringe artisti e spettatori a seguire uno spettacolo di esecuzione tecnica, un teatro che Cristina Pezzoli ama definire morto.
Il suo metodo è molto semplice: chiamare attorno a sé e alla sua carismatica personalità un gruppo di giovani attori, lavorare insieme ad ognuno di loro, cercando di smantellare ogni loro certezza, ogni maschera, alla ricerca dell’azione vera, l’unica degna di essere portata sul palcoscenico. Affinché quest’azione possa realmente accadere, l’attore non deve prestabilire niente, deve solo affidarsi a ciò che succede in scena, mentre gioca con i suoi compagni. Si tratta quasi di un match di improvvisazione.
Al teatro Ciro Menotti ho assistito a due lavori della Pezzoli, il primo della durata di un’ora e mezza intitolato Scuola Sbroc, il secondo di un paio d’ore dal titolo Opera viva. Già questo titolo dimostra che ciò a cui assisteremo non è solo un lavoro, ma un’ideologia di lavoro, una presa di posizione del gruppo contro il modo di fare teatro tradizionale.
Partiamo dal primo lavoro. Scuola Sbroc parla di una classe di alunni scoppiati o “sbroccati” che polemizzano apertamente, e spesso in maniera aggressiva, con il Professor Livolsi (interpretato appunto da Paolo Livolsi). Durante l’ora di lezione però il Professore sbrocca più di loro, impugna una pistola e li costringe a confessare i segreti più oscuri della loro vita, tra sevizie e giustizialismi.
La regista apre lo spettacolo spiegandoci il tipo di lavoro a cui assisteremo: gli attori non hanno un testo da seguire, ma un canovaccio come gli attori della commedia dell’arte, sul quale i giovani interpreti sono liberi di creare il loro testo personale. E’ un lavoro sull’autorialità dell’attore. Bello quest’accostamento tra i suoi attori e i commedianti, se nonché mi piacerebbe ricordare che gli artisti della commedia dell’arte non improvvisavano mai, avevano sì un canovaccio, ma anche tutto un repertorio di parole, gesti, acrobazie, codici che sapientemente utilizzavano di sera in sera. L’improvvisazione non era proprio nei loro piani semplicemente perché non esisteva. La parola improvvisazione comincia a comparire nel linguaggio teatrale solo nel 900.
Perdonate questa noiosa precisazione, ma come dottoressa in Storia del Teatro, non potevo non farla. Il lavoro comunque ha spunti interessanti. I giovani attori veramente improvvisano ed è molto piacevole vedere come e quanto si ascoltano, come interagiscono con una certa efficacia alle provocazioni e alle situazioni presentate. Ma le situazioni ahimè sono troppe e troppo banali. La ricerca di un totalitarismo realistico fa perdere molta credibilità alle azioni stesse. Mi spiego, ho trovato implausibile che in un’ora e mezza potesse succedere tutta quella quantità di roba, i ragazzi litigano tra di loro, facendo scattare dei conflitti personali, poi litigano con il maestro (e fin qui tutto bene), poi il maestro tira fuori una pistola li obbliga a tirare fuori ombre che nemmeno uno psicanalista dopo 5 anni di analisi riuscirebbe a fare, e qui iniziano le incongruenze. Intanto la reazione alla pistola è alquanto inverosimile, la regista sembra aver terrorizzato gli attori a non essere mai fortemente teatrali, gli attori appaiono quindi preoccupati a fare sempre il meno possibile, risultando a volte indifferenti e poco stupiti (come in questo caso o ancora più evidentemente più tardi quando il professore taglierà le dita a quasi tutta la classe). Inoltre gli attori si spalleggiano a vicenda, si aiutano (che è un bene) ma questo non permette mai di andare a fondo ad una sola azione, preoccupati come sono, per restare vivi sulla scena, a non ripetere mai la stessa cosa e a cambiare continuamente ritmi e situazioni, finiscono nella trappola di risultare generici, retorici e poco veri. E’ come se ognuno di loro portasse in scena una decina di personaggi e quindi mai uno autentico. Il problema più serio però è da imputare alla regia: seguire pedissequamente la linea del realismo impedisce di entrare in altri piani naturali al teatro, come l’evocazione, la fantasia, il surrealismo. Il problema si presenta quando il maestro uccide gli allievi e loro resuscitano e uccidono a loro volta l’insegnante che resuscita, come a voler dimostrare l’impossibilità della vera morte a teatro. Così anche quando il Prof taglia le dita ai ragazzi, gli attori non riescono (nell’inverosimiglianza dell’azione) ad avere reazioni credibili (risultano sempre incazzati e piagnoni e mai inquietati, impauriti, stupefatti). Ripeto, non è un problema attoriale, ma registico. Servirebbe qui alla Pezzoli di credere maggiormente nelle possibilità del teatro, che è luogo anche della fantasia, dell’immaginazione, della forma e della struttura. Qui, una maggiore strutturazione del momento, utilizzando gli strumenti adatti ad accedere a piani di racconto teatralmente complessi, avrebbe fortemente aiutato la fruizione. Rispetto fortemente la parte pedagogica della Pezzoli, ho dei seri dubbi che l’ideologia (o utopia) del suo lavoro possa colmare registicamente evidenti mancanze.
Mi piacerebbe citare i generosi interpreti, ma il Teatro Ciro Menotti, come sempre, è avaro di fogli di sala, presentazioni della compagnia, che mi avrebbero permesso di citare i nomi degli interpreti, e mi scuso con loro e li applaudo anche da queste pagine.
Su l’altro lavoro spendo poche parole: tratta di un viaggio di galeotte europee su una nave-prigione che le porta in Australia, durante la colonizzazione degli inglesi del nuovo continente. Non aveva senso spingere un folto numero di attrici a presentarsi ad un pubblico pagante con improvvisazioni filodrammatiche, senza capo ne coda, mettendo in seria difficoltà sia le giovani che cercavano di rendere, per quanto potessero, drammatiche e necessarie le azioni che portavano in scena, e mettendo in serio imbarazzo il pubblico in sala ( o almeno, io ero molto a disagio) che non sapeva se dovesse seguire una traccia di storia personale delle attrici o le assurde pretese della regista che, per mancanza di tempo, le spingeva ad accelerare le situazioni, interromperle, passare ad altro,.... ma a cosa e a chi serviva tutto ciò?