martedì 21 febbraio 2012

IL TEATRO DEL SENTIRE e la morte del pensiero

di Fernanda Soana

Giorni fa leggevo un articolo di Renato Palazzi su Myword, nel quale lo stimato critico denunciava la perdita della centralità della città di Roma in quanto centro nevralgico della cultura teatrale nazionale, a vantaggio di una Milano in rinascita, grazie al fervore creativo dei suoi tanti teatri e compagnie, fatta eccezione per il Piccolo Teatro, nel quale Palazzi vede una cristallizzazione di intenti e di idee.

Sono alquanto d’accordo con lui, anche se non posso almeno non notare che il Piccolo in questi anni ha anche prodotto dei lavori di una certa importanza di Pasqual, Rifici e Senigaglia. Nonostante questo, è vero che il Piccolo abbia comunque perso la sua vocazione; è un teatro che non investe né in testi, né in spettacoli, né in registi, né in ospitalità di rilievo.

Sempre in quell’articolo, Palazzi citava i premi Ubu milanesi fautori della rinascita: tra i quali Federica Fracassi di Teatro I e La compagnia dell’elfo. Guarda caso artisti totalmente agli antipodi dal Piccolo teatro. Artisti che hanno sviluppato un genere teatrale pop, un teatro nazionalpopolare, di una certa solidità e qualità, un teatro basato molto sull’empatia tra gli attori e il loro pubblico, e su un utilizzo della tecnologia (musica, luci, video, pop art) che, come ci ha insegnato il grande Carmelo Bene, sono gli strumenti contemporanei che hanno sostituito gli ingredienti dei melodramma: il genere nazionalpopolare dell’ottocento. Strumenti che portano lo spettacolo al cuore del pubblico: voci amplificate, microfoni, videocamere incollate alle facce degli attori, neon, led, nudi esibiti e quant’altro, sono i mezzi utilizzati oggi dal teatro per varcare la soglia cutanea dello spettatore.

Il Piccolo, al contrario, nei suoi anni d’oro, con i grandi lavori su Brecht di Strehler e poi con Ronconi, è sempre stato un teatro con la vocazione al pensiero, lontano, almeno negli intenti, da un teatro à la page. Degli effetti sul pubblico di un teatro pop e alla moda se ne erano già accorti i registi tedeschi anni fa, tanto da riuscire a imporre una mainstream avanguardia all’intera Europa.

Il teatro tedesco però ha attori padroni di una grammatica che non consente loro di svalutare il linguaggio teatrale, la lingua tedesca vive di regole che non possono essere trasgredite. L’italiano è una lingua bugiarda, equivoca, piena di inciampi e trappole, una lingua artificiale frutto essa stessa di una continua sperimentazione. Gli inglesi, dal canto loro, protezionisti come possono essere solo gli isolani, di fronte a questa ondata di germanizzazione del teatro, si sono chiusi a riccio, mantenendo salda la loro raffinatissima identità teatrale, basata su una solida tradizione, mentre i francesi, che hanno una lingua più legata alla discussione, alla filosofia e alla conversazione che al dialogo e al rapporto, sono sempre stati dei grandi importatori di teatro piuttosto che degli esploratori ed esportatori. Non a caso l’inglese Peter Brook ha fatto a Parigi la sua fortunata ed notevole carriera, così come l’americano Wilson.

Torniamo al Piccolo, un teatro che nel passato guardava alla Germania come a un punto di riferimento. In questo stravolgimento delle forme di comunicazione è chiaro che il Piccolo non ha saputo come trasformarsi, non avendo nel suo organico menti dirigenziali capaci di mantenere solida la propria vocazione al pensiero da controbilanciare a tutta una serie di artisti che si muovono nel “teatro del sentire”.

Non solo a Milano quindi, ma praticamente in tutta Europa, eccetto che per la Gran Bretagna, si è spostato l’asse del problema: se il teatro nel 900 è stato un luogo della riflessione, oggi è il luogo dell’emozione, dove l’obiettivo è colpire il pubblico al cuore. Non è mio compito giudicare il cambiamento, ma i miei frequenti viaggi teatrali mi hanno portata a questa considerazione. Il pericolo, o l’avvisaglia, già l’aveva preannunciato il drammaturgo Botho Strauss più di dieci anni fa, denunciando nel teatro tedesco la perdita del senso e dall’analisi logica, parlando di un teatro non più basato sul concetto, sul testo, bensì sull’immagine, sull’emozionalità: questo, sempre secondo l’autore, avrebbe condotto gli artisti verso un teatro di forma, dove l’immagine emozionale avrebbe sostituito velocemente l’emozione cerebrale, creando un grande equivoco tra emozione e sentimento e una perdita di contenuto molto pericolosa.

Guarda caso anche in Italia i palcoscenici (soprattutto quelli festivalieri e di nicchia) sono pieni di spettacoli di performers, c’è un ritorno ad una sperimentazione alquanto anni settanta, un ritorno dei monologhi, un ritorno ad un teatro più dionisiaco che apollineo, un teatro abbassato nel senso e alzato nella sensazione.

E’ un teatro che si muove lontano dal testo, ma che fa della creatività autoriale dell’attore e dell’improvvisazione la sua matrice. E’ un teatro lontano dall’interpretazione, legato ad un procedimento maggiormente solitario dell’artista, che torna ad avere un contatto più diretto con il pubblico.

Anche grandi registi, come Thomas Ostermeier, non si sono lasciati sfuggire la tentazione di sorpassare gli intralci del testo: i suoi ultimi Shakespeare non si pongono problemi di interpretazione, tentano invece di scavalcare il problema del testo buttandosi a capofitto in una contemporaneità e attualizzazione capaci di arrivare immediatamente al pubblico. Infarciti di situazioni pseudomoderniste, questi spettacoli, slegati dalla materia letteraria, catalizzano lo spettatore grazie alla forza delle loro immagini. Gli spettacoli di cui parlo sono esteticamente molto belli, ma spesso privi di profondità e quasi mai risolvono problemi di semiotica teatrale. Il segno, legato ai meccanismi del pensiero, quindi all’inconscio, alla fantasia e anche al mistero, lascia posto all’immagine, che è evidentemente di matrice emozionale.

Forse la critica teatrale e letteraria ha cominciato ultimamente a snobbare un certo teatro legato al testo perché ha perso gli strumenti di analisi, e si è lasciata trasportare da un sentimento comune: la semplificazione del nostro tempo.

La nostra epoca è alquanto lontana dallo studio della semiotica, del segno e dello spazio. E’ una società non illuminata, ma caotica, persa nella paura della crisi e dalla mancanza di una speranza nel futuro (economica? filosofica?). Allontanarsi da “io sono ciò che penso” per “Io sono ciò che sento” significa sostituire il concetto con l’informazione. L’informazione è più semplice, è sintetica, arriva subito al cuore senza incontrare molti ostacoli nel suo cammino. Da una parte questo procedimento ha creato un esponenziale ottenimento delle notizie, reazioni globalizzate di fronte agli eventi, situazione inimmaginabile solo dieci anni fa, dall’altra ha svalutato il linguaggio. Anche l’arte si è adeguata a questo comune sentire e ha sciolto il suo contratto con il contenuto, cadendo però in una trappola alquanto pericolosa: ha equivocato il contenuto con l’immagine, il suono, la luce e la carnalità dell’attore. Ha confuso il contenuto con il contenente, finendo col sovrapporli. Il contenuto prevede invece qualcosa che sta dentro il contenitore, porta allo scoperto i legami sotterranei fra gli spazi bianchi che separano le parole, crea possibilità, pericoli, interferenze: in sostanza svela il pensiero complesso dell’essere umano che si complica ulteriormente appena si rapporta ad un altro essere umano.

Forse per questo i monologhi piacciono, perché non hanno bisogno dell’altro, del rapporto. E ancor di più piace l’attore che si rapporta direttamente al pubblico. Perché il pubblico non può parlare, può solo “sentire”. E l’artista non ha il problema di creare relazioni complesse in scena, potendosi al contrario concentrare con una relazione semplice, quella tra lui e il suo spettatore.

Ultimamente mi è capitata l’occasione di vedere alcuni lavori di pittura di artisti africani, con mia grande sorpresa (e ignoranza), mi sono trovata davanti a lavori figurativi di notevole spessore politico (l’arte figurativa è praticamente scomparsa nel vocabolario dell’artista occidentale: la figura per la pittura, sta come il testo per il teatro). Mi è venuto da pensare che un neo rinascimento e un consequenziale illuminismo stiano avvenendo in altri continenti, fuori dalla nostra impaurita Europa, nei luoghi dove oggi il pensiero è una forte arma politica.

Questo mi ha rassicurata da una parte e amareggiata dall’altra: perché il Teatro possa ritrovare la sua vocazione al pensiero necessita di qualcosa di più terribile della crisi economica che stiamo vivendo? Ci vuole una gravissima frattura sociale perché artisti in via d’estinzione possano ritrovare una loro casa? Il teatro del pensiero viaggia sempre accanto alle inquietudini più nere? Brecht, Botho Strauss e Heiner Mùller per i tedeschi, Calvino e Pasolini per gli italiani sono il frutto di grandi capovolgimenti politici, gravi crisi, orribili guerre. E’ terribile constatare che la Ragione torna ad imporsi solo dopo che il caos ha distrutto ogni cosa.

lunedì 6 febbraio 2012

ANTROPOLAROID, di e con Tindaro Granata

Granata e il coraggio di farsi racconto.

di Cosimo Attico

Al teatro Elfo Puccini assisto al lavoro di Tindaro Granata. Attirato dal titolo più che dal nome dell’attore (fortunatamente ignoto, in una scena, quella milanese, dove i monologhi sono spesso l’autocelebrazione dell’attore di fama che si celebra di fronte al suo pubblico) mi siedo davanti alla scena vuota: una sedia, un telo bianco.

Testo regia e interpretazione sono di Granata. Sono curioso.

La trama è immediatamente svelata dagli intenti del narratore: vi racconterò la storia della famiglia siciliana da cui provengo, niente di pretenzioso, nessun desiderio di denuncia, semplicemente una storia conosciuta a fondo da chi parla. Dal bisnonno che si uccide perché gli viene diagnosticato quel male per cui si muore “chianu chianu”, alla nonna che si innamora del nonno in una sala da ballo, al padre che tenta la fortuna in svizzera, a Granata stesso, che lascia la Sicilia per fare l’attore a Roma. Passa tutto il novecento dalla lente autobiografica di Tindaro Granata. Un incastro drammaturgico ben ideato che non ci lascia il tempo di interrogarci sulla natura dell’operazione: ANTROPOLAROID è uno spettacolo che parla di Mafia? No. Parla della storia di una famiglia? Non solo. Ma nella vicenda di una famiglia si vedono in tralice i mondi sociali, storici, geografici che il nostro paese inconsapevolmente vive e subisce.

La scrittura è portata attraverso una lingua siciliana modulata attraverso gradi di intensità: da momenti in cui confina con l’italiano ad altri in cui sfoga nel grammelot.
La storia di Tindaro entra nella Storia nel momento in cui si nomina per la prima volta la connivenza- obbligata, sofferta e subita- con il potere mafioso. Sempre raccontato con la leggerezza e il coraggio dell’ironia intuiamo il profondo legame di una terra con il suo potere più devastante, quello che obbliga chi se ne va, chi sceglie di non subire, a nominare i fatti e non chi li ha compiuti, quel potere che porta al suicidio, alla disperazione, a smettere di porsi domande.

Quello che convince dello spettacolo di Granata è la qualità dell’interpretazione, assolutamente personale e incantata. Non è un racconto viziato dalla copia di altri, assomiglia piuttosto al “come se” dei giochi infantili, il “facciamo che io ero” dei bambini. E questa necessità diventa magnetica per il pubblico, Granata si trasforma sulla scena, senza interpretare, senza costruire personaggi, "è" di volta in volta le persone che servono alla sua storia. E nella parola di Granata intuiamo come a lui sono arrivati quei racconti: il Cunto di una famiglia che si tramanda di padre in figlio, il melò delle storie d’amore dei nonni trasmesse ai nipoti, i tentativi di decriptare il groviglio complesso di suoni ascoltati e non compresi, la gestualità ripetuta e incompresa delle abitudini.

Il lavoro sul gesto è curato, preciso, come tutti gli elementi del lavoro: il gesto è rituale, talvolta astratto, si sostituisce alla parole per raccontare l’irraccontabile, è l’emozione che la voce non sa dire, è studiato ma mai estetico. Anche le scelte musicali si inseriscono nello stesso sistema di scelte: sono funzionali al racconto, emozionanti, semplici, conosciute e riconoscibili.

Ecco, mi dico, un bell’esempio di un attore che cerca una strada personale per usare i suoi mezzi espressivi, nessuna tecnica manifesta, nessuna furba invenzione scenica, solo racconto. I limiti infatti sorgono dove il racconto si fa funzione drammaturgica: i pezzi in cui l’attore dismette le sue modalità narrative per parlare in italiano, al pubblico, come un narratore, sono i momenti più fragili del lavoro, meno adattati alle specificità espressive dell’interprete, meno presonali. Anche dal punto di vista drammaturgico ci sono momenti meno riusciti, ripetizioni di alcuni frammenti di testo, troppe per essere inconsapevoli, ma a mio parere non sempre necessarie.

La forza di questo spettacolo risiede nella sua necessità, nell’assunzione di una modalità assolutamente personale di racconto, nella ricerca dell’incanto, nel recupero di una poesia estranea a molta scena contemporanea. Granata non punta a denunciare un sistema di cui è stato parte e vittima, in cui è cresciuto, tanto più che non si propone di nominare esponenti della mafia ancora ignoti alle indagini, non ci dice sul mondo mafioso qualcosa che ancora non sappiamo.

ANTROPOLAROID assomiglia alla vita: non si può sperare di capirne il senso dall'interno, va solo lasciata scorrere, e nello scorrere chi ci vede vivere può fare la sintesi e le riflessioni che dall'interno sono impossibili, o fasulle. Granata scatta la Polaroid. Sta al pubblico interpretare l'immagine.

La provocazione e l’innovazione di Granata stanno a mio parere proprio nei momenti più semplici: ci ricorda che dove c’è una storia, e dove qualcuno è in grado di raccontarla, c’è la possibilità di riscatto di una collettività. Quella collettività che a fine spettacolo batte le mani, commossa dall’effetto catartico che il teatro può ancora avere.

E infine me ne vado dalla sala rassicurato, pensando che esiste ancora un teatro che mette in crisi le proprie certezze per dare voce alla propria personalissima e irresistibile necessità di raccontare.

sabato 4 febbraio 2012

FAVOLA

Applausi e ammirazione per la Diva Timi
scritto e diretto da Filippo Timi
con Filippo Timi, Lucia Mascino, Luca Pignagnoli

L’ultimo spettacolo di Filippo Timi, noto attore di teatro e di cinema (lo ricordiamo soprattutto per l’interpretazione del giovane Mussolini in Vincere di Bellocchio), si apre su  una scena che rappresenta l’ interno di un salottino anni 50, dietro il quale compare un corridoio di entrata, con scale che portano ad un piano superiore (evidentemente solo suggerito). La scena è di stampo filodrammatico, ha il sapore di quegli allestimenti delle compagnie amatoriali che “infarciscono” il palcoscenico di suppellettili estremamente realistici e alquanto kitsch, per restituire al pubblico un’atmosfera casalinga: tavolini, poltrone, oggettini vari, piante, alberi di natale, telefoni, bottiglie e bicchieri, tappeti,... L’intento del regista, in questo caso, è evidentemente ironico: la scena vintage e molto colorata già suggerisce lo scopo dello spettacolo: una parodia della vita borghese. Infatti Filippo Timi entra in scena vestito con abiti da donna MiùMiù, e si presenta subito come magnifica padrona di casa, contenta di parlare ad un cane barboncino impagliato, dopo che Stene, suo marito, l’ha ucciso a colpi di botte. Timi si muove in scena come una Diva degli anni 50, imitando gesti e posture delle grandi attrici americane, dichiarando esplicitamente il proprio amore per Judy Garland. In realtà sulla trama dello spettacolo c’è pochissimo da raccontare: lei è incinta, aspetta un bambino che dovrebbe chiudere il cerchio di una vita borghesemente perfetta: casalinga, moglie e madre. Lei ha anche un’amica del cuore, interpretata da una bravissima Lucia Mascino, e degli strani vicini, tre giovani fratelli gemelli, interpretati dall’acerbo Luca Pignagnoli, e una madre terrorizzata dall’arrivo degli UFO e ossessionata che la figlia mangi molte banane per assimilare potassio, questo personaggio in realtà non compare mai in scena, le conversazioni fra le due donne avvengono al telefono, un omaggio forse ai grandi sketchs di Franca Valeri (che viene omaggiata anche da uno dei vari video di annata all’interno dello spettacolo, cha fanno come da siparietto). Questi personaggi dovrebbero mostrarci che la vita di Timi non  è così tanto perfetta, che i mariti tradiscono le mogli, anche con gli uomini, che le donne sono a tratti lesbiche,  a volte pedofile. Lo spettacolo si chiude con l’omicidio di Stene e un inno all’amore libero e privo di pregiudizi. Un po’ poco per le tre ore di durata dello spettacolo: niente di più di un sit-com americana anni 50, con vaghe inspirazioni hitchcockiane (nei cambi di luce dal realistico all’astratto).
Ma veniamo alla cosa più interessante dello spettacolo, ovvero la sua metodologial’improvvisazione. Avevo già parlato di questo in un altro articolo, recensendo lo spettacolo di Cristina Pezzoli, ne torno a parlare ora, perché mi sembra molto interessante che sia tornata così fortemente di moda una tecnica in voga negli anni 70, e praticamente sparita per un ventennio. Gli attori improvvisano, hanno un filo conduttore da seguire (i personaggi che interpretano) delle piccolissime cose da toccare per mandare avanti l’esile trama, per il resto pare sia frutto di una continua invenzione sulla scena. Pare è il termine esatto, perché non è così chiaro se gli attori stiano improvvisando realmente o ce lo  facciano soltanto credere. A me sembra entrambe le cose. E’ lo stesso Timi a suggerire l’ambiguità entrando subito in una torbida relazione con il pubblico: ride egli stesso alle battute che fanno ridere il pubblico in sala, creando una specie di strano patto che sembra dire State tranquilli, vi farò sganasciare dalle risate, guardate quanto mi diverto io!
Ahimè  questo però succede tante di quelle volte che ad un certo punto sembra uno strumento che Timi utilizza per misurare il grado di coinvolgimento del pubblico e non una reale perdita del controllo dell’attore, appare uno strumento furbesco. E affinché il pubblico rida a si diverta, non gli si risparmia niente, lo spettacolo è senza regole: ogni cambio di voce, di atteggiamento, di situazione sono leciti, ogni cattiveria o divertissement da fare ai propri colleghi sono benvenuti, fino ad arrivare a rompere una bottiglia, spero di finto vetro, in testa alla povera Mascino, che veramente sorpresa e scioccata (ma siamo sicuri che fosse veramente sorpresa?) gli dice Ma sei scemo? facendo crepare il pubblico dalle risa. Potrei raccontare un centinaio di gag: dalla caramella all’arancia assaporata per 5 lunghissimi minuti, al bacio omo-pedofilo, ai balletti, il mimo, agli ettolitri di beverone alla menta che Timi fa obbligatoriamente ingurgitare ai suoi compagni di scena,...
Il pubblico ci sta, il pubblico ride, applaude, impazzisce per la Diva Timi. Che è effettivamente bravo e padrone dei suoi mezzi. Ma qui arriva la domanda cruciale: perché tutto ciò? A chi serviva? Timi usa lo spettacolo e il teatro come se fosse padrone di casa e il pubblico un suo proprio ospite da intrattenere, e soprattutto un ospite che intrattenga lui per tre ore. L’esito e lo scopo è il solito italiano: il pubblico ha bisogno di qualcuno da amare, da idolatrare, come in politica, come nel calcio, come in televisione, anche in teatro si ripresenta  il noto meccanismo italiano del rapporto tra servo e padrone. Il Padrone (Timi), rischia la propria vita (cioè si mette in gioco in scena) per affermare la propria indipendenza e superiorità, raggiunto lo scopo si eleva su quelli che sono diventati i suoi servi (gli spettatori) che preferiscono la perdita della propria indipendenza (in questo caso l’intelligenza analitica, la coscienza che il teatro serve al mattatore quanto al pubblico, in egual misura) pur di aver salva la vita (tre ore si svago dove pensare e capire è vietato). Anche il servo diventa importante per il padrone, perché dal lavoro di quello dipende il suo stesso mantenimento (le risa, gli applausi a scena aperta, lo sbigliettamento, l’amore per il mattatore, aumentano la sua autostima e il suo portafoglio). Siamo alle solite, gli italiani amano i Vanagloriosi, i presuntuosi, i vanitosi, Timi, come Berlusconi, usa un bene pubblico, il teatro, per un suo bisogno privato: soldi, carriera, vanità.
Come in politica o nei ruoli pubblici, è Timi ha dettare le leggi e le regole che gli altri devono seguire, ma che lui, e solo lui, può trasgredire a suo piacimento, senza una reale giustificazione. L’importante è l’apparire (gran begli abiti) non l’essere. La sua indiscutibile bravura, il suo talento, li ha divorati l’ambizione. Pericolo ancora più grande la stampa; se il giornalista accorre a Porta a Porta o a Matrix quando vanagloria o cronaca pettegoliera da palazzo di potere richiedono la sua presenza, così il critico dello spettacolo dal vivo si affretta a straparlare dell’evento teatrale dell’anno (Timi, o Scamarcio non importa) per risentirsi utile e per riaffermare il suo patto, ormai definitivamente rotto, con il pubblico (anche il critico vuole essere amato e venerato). Smarrito il rigore intellettuale, il giornalista teatrale ha cambiato veste editoriale, la sua pagina non si occupa più del teatro del pensiero, ma del teatro dell’evento. Si è passati, come in politica, dalla necessità all’effimera vanità. Quindi ad uno stato di allarme.

Fernanda Soana