lunedì 16 maggio 2011

Festival Exister di danza contemporanea, edizione 2011: Destinazioni.

Giovane, italiana contemporanea e ironica.
di Cosimo Attico

DESTINAZIONI è l’ultima edizione del festival Exister che premia e mette in scena alcuni esponenti della giovane danza contemporanea. I sei gruppi vincitori del concorso hanno presentato i loro lavori, brevi pezzi di teatrodanza della durata variabile dai 3 ai 20 minuti, allo spazio Maisonfou di Milano, dopo un tour in altre piazze italiane e prima dell’edizione autunnale del festival.
Ora; essendo il sottoscritto inappropriato nell’analizzare i linguaggi e le istanze della danza contemporanea mi comporterò come uno spettatore teatrale che, arrivato un po’ per caso allo spazio Maisonfou di Milano il 15 maggio 2011, esercita la sua competenza teatrale in un codice differente dal teatro.
Mi perdonerà il lettore competente per eventuali inesattezze, ma il sottoscritto non ha potuto resistere alla tentazione di recensire questa silloge di brevi frammenti di contemporaneità, felice esito creativo del lavoro di questi artisti, e momento felicemente gradevole per la danza contemporanea milanese. Caratteristica comune ai pezzi presentati da Exister è la ricerca sul contenuto prima ancora che sulla forma, che diventa veicolo di un racconto mai estetizzato, aderente al reale da cui trae ispirazione.
Martina Cortellazzo, la prima ed esibirsi, ha presentato THE CUT_TUK SHOW, uno studio che partendo dalla gestualità precisa e meccanica dell’arte della cucina approda al gesto astratto della danza, interferenza che si inserisce quasi involontariamente nella ritualità del cucinare. Sul palco ci sono un tavolo di metallo, un fornello con l’acqua che bolle, gli ingredienti per preparare il “pollo marinato alla chutney di prugne e zenzero” e un pollo spennato con cui la danzatrice si relazionerà fino ad assumerne le movenze e quasi l’identità, scardinando quella che all’inizio sembrava essere una lezione di cucina, ora trasformata in una “Morte del Pollo” in tutù, con Cristiano Malgioio al posto di Tchaikovsky, spazzando via quella serietà da Gambero Rosso attraverso l’ironia noir della cuoca/danzatrice. Martina Cortellazzo si fa apprezzare per l’originalità dell’idea anche se la sua esecuzione risulta a tratti ripetitiva.
In un altro punto dello spazio Agostino Riola e Riccardo Fusiello presentano poi I WANNA. Fermi nell’angolo di un ipotetico bar, immobili e tesi, ci mostrano la tensione di due corpi attratti l’uno dall’altro ma frustrati in una immobilità che tradisce la paura, il desiderio, l’insicurezza, l’orgoglio con toccante concretezza. La scelta della musica pop anni Ottanta rende ancora più innaturale l’immobilità dei due corpi ( innaturalezza esplicitata dalla scritta i Love to dance sulla maglia di uno dei due). La sofferta e febbrile fissità di Agostino Riola, che si scioglie in una danza contro il muro (quel muro che gli è stato nido e certezza), solo alla fine del pezzo, è estremamente efficace, mentre la partitura fisica di Riccardo Fusiello risulta meno efficace e meno leggibile, quasi il virtuosismo tecnico di un danzatore che soffre non meno del suo personaggio la sua immobilità sulla scena.
Dopo la breve installazione di Sara Catellani, il duo Schuko con YO E CI mette in relazione su un palco vuoto una manga  con un pupazzo di pezza, indagando le due diverse attitudini nel movimento e nella relazione: morbida e dipendente dalla sua gravità quella del pupazzo, consapevole e compiaciuta quella della ragazzina. E mentre l’uno esiste nel momento in cui è sostenuto o in contatto con un altro corpo, l’altra prende vita quando qualcuno la guarda esibirsi in una danza codificata, che attinge alle movenze pop-emo del mondo a cui si ispira. 
Marco d’Agostin con VIOLA mette in scena il sofferto conflitto tra identità e rappresentazione di un corpo costretto ad esibire la propria virilità per arrivare poi a trasformarsi in un femminile livido e solitario, un sofferto Orlando woolfiano che si è volontariamente privato dei genitali per poter essere per un attimo quello che realmente sente di essere. Forse il sottoscritto è troppo reazionario, ma appartiene a quel gruppo di amanti della scena dal vivo che si turbano nel vedere un corpo che percuote se stesso, come arriva a fare Marco d’Agostin, forte e potente sul palco ma talvolta chiuso in una sofferenza da cui lo spettatore rischia di rimanere escluso.
Infine assistiamo a LEONI, in cui Matteo Fantoni dà vita ad un fragile amatoriale che trova nella danza il modo per superare i propri limiti e trovare un momento di abbandono e che con coraggio presenta sulla scena (con l’agitazione e la commozione di un debutto sul palco) la sua composizione. L’ironia dell’interprete e la sua delicatezza tratteggiano l’umanità del personaggio che si fa portatore di quel desiderio universale di abbandonarsi, dimentichi dei propri limiti, per trovare nella musica, nella danza, nella scena, nella comunicazione con una platea, nelle parole di una canzone, un momento di riscatto e di esistenza più vera della irrealtà del quotidiano. “Ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è”, canta Battisti nel pezzo di Fantoni, mentre il suo tragicomico personaggio resiste in modo commovente ad una vita che il danzatore ci fa immaginare, per concedersi questi venti minuti di Esistenza sul palco.
E in questo momento di crisi delle arti performative, fiaccate da politiche che non si occupano di garantire la sopravvivenza dello spettacolo dal vivo (come ha sottolineato con responsabilità all’inizio della serata la curatrice dell’evento), vedere realizzato sulla scena il disperato bisogno che ha l’uomo di fare teatro, di danzare, di alzare la musica fino ad assordare se stesso e lo spettatore, è un urlo di resistenza intelligente e semplice, come forse tanta cultura di ricerca ha dimenticato di poter essere, per arrivare all’emotività del pubblico meno consapevole. E le reazioni della platea, tra il pianto e la risata, fanno riflettere sulla possibilità che ancora ha la scena (anche quando rinuncia a confrontarsi con la complessità della parola o dell’astrazione gestuale) di essere catarsi per le emozioni condivise di un pubblico.
“La gioventù sorride senza ragione. È una delle sue grazie maggiori”, recita la citazione di Wilde proposta per introdurre la serata. Si ride molto, in tutti questi pezzi, ma la ragione del sorriso è assolutamente ragionevole e condivisibile: si sorride nel ritrarre l’umano, nelle sue declinazioni più buffe e fragili.
A detta di molta della nostra psicologia contemporanea la depressione (in inquietante crescita nella società liquida dell’incertezza) annulla l’umorismo; ma l’ironia, trait d’union di quasi tutti questi pezzi, non può che essere colta come un segno di rincuorante salute di artisti che non hanno ancora rinunciato a ridere dell’uomo e delle sue incoerenze.
Forse è mancato nel panorama della serata (considerato che il festival è detto “di danza contemporanea”) qualche momento squisitamente danzato, in cui l’originalità delle idee fosse affiancata da una più approfondita ricerca sul movimento e sulle sue possibilità. Luci e costumi erano in tutte le performance funzionali all’idea e al racconto, mentre le scelte musicali efficacemente popolari hanno contribuito a rendere facilmente godibile il lavoro degli artisti.
Pubblico giovane, apparentemente di addetti ai lavori. Peccato!
Nella semplicità e fruibilità delle proposte sarebbe stato bello vedere chi a teatro è solito non andare, ma che in questi corti avrebbe avuto un facile canale di ingresso nel mondo della danza contemporanea. Replica il 22 maggio a Milano, ad Assab One.

Nessun commento:

Posta un commento