giovedì 12 maggio 2011

BLACKBIRD; David Harrower, regia di Lluis Pasqual

La bambina e l'uomo o il bambino e la donna? Un critico si interroga.

di Cosimo Attico

Iniziamo per una volta dal libretto di sala, nel quale il regista Lluis Pasqual, interrogato sulle ragioni della scelta di portare in scena Blackbird risponde che ci sono due modi di fare teatro politico: uno è prendere una posizione e comunicarla agli spettatori, l’altro scegliere un testo che tratta di un tema e non da un giudizio morale a riguardo. L’autore, David Harrower, uno dei nomi più importanti della drammaturgia scozzese contemporanea, scrive Blackbird (letteralmente merlo, o ragazzina) nel 2005, ispirandosi ad un fatto di cronaca di qualche anno prima: un uomo e una donna si incontrano una sera dopo anni di distanza sul posto di lavoro di lui, dove lei l’ha cercato. Potrebbe sembrare l’incontro di una coppia che si è amata e lasciata conservando del rancore e delle incomprensioni ma scopriamo invece dopo quasi mezz’ora di spettacolo che la relazione è avvenuta quindici anni quando la ragazza era dodicenne e l’uomo poco più che quarantenne, è durata tre mesi e finita con l’arresto di lui e la pubblica umiliazione di lei.

Ma torniamo per un attimo al libretto di sala: Pasqual dice che Harrower ci invita a “porci un gran numero di domande su un tema che appartiene antropologicamente al concetto di umanità, al quale non esistono risposte”. Seguendo l’invito dell’autore strutturerò questa mia recensione cercando di dare voce alle domande nate nel corso dello spettacolo.

Blackbird è una storia di abuso minorile? No. Il testo sembra porsi altre domande: Chi ha sedotto chi al tempo della relazione? In che cosa si distingue una relazione consenziente da un abuso? Dalla minore età di uno dei due? Ma chi è davvero l’adulto e chi l’infante? Che cosa fa soffrire la vittima? L’abuso o l’abbandono? Harrower affronta un tema impalpabile e doloroso come l’abuso minorile senza cercare vittime e carnefici, ma indagando le ragioni di uno e dell’altro, lontano da un giudizio o un’assoluzione morale. La scena di Paco Azorìn è composta una pedana sormontata da una stanza a vetri (un altrove che immaginiamo essere il posto di lavoro di lui) con qualche sedia, un bidone dell’immondizia (l’elemento meglio sfruttato dello spettacolo, quasi oggettivazione dell’impedimento di uno e dell’altro a muoversi con libertà nelle proprie vite), due contenitori: la scena è ora il ring, ora il palco da cui ciascuno due recita la propria autorappresentazione, ora la stanza metaforicamente claustrofobica da cui non si può uscire perché soffocati dalla sporcizia del ricordo, ora il campo di battaglia di due antieroi. Il pubblico sta tutto attorno, illuminato dalle luci di sala che si spengono solo per qualche minuto, in quei pochi istanti in cui il giudizio dell’esterno sembra lasciare posto all’immersione nel ricordo, e alle luci soffuse di Claudio de Pace. La visibilità degli spettatori sembra essere il segno della messa in piazza di una vicenda privata.

Lluis Pasqual sceglie di conservare il realismo del testo, anche attraverso i costumi di Chiara Donato. Ma parlando della regia torniamo alle domande: in cosa si differenzia quello che vediamo sulla scena da una normale relazione tra un uomo e una donna? Inoltre: quale elemento agisce dentro i due personaggi smuovendo le zolle che hanno leso l’identità di lei (che, additata come “troia” dagli estranei e dalla famiglia, ha finito per assumersi questo ruolo) e di lui (che dopo sei anni di carcere ha cambiato nome per poter continuare a vivere)? Assistiamo al racconto, alla rievocazione, ma si ha l’impressione che i personaggi usciranno di scena esattamente come ci sono entrati, che l’incontro non produrrà su di loro nessuna modificazione, nemmeno il blackout che lascia al buio la ragazza (come le era successo da bambina, abbandonata da lui in una camera d’albergo). Non è che forse la scelta di rinunciare ad una visione morale della vicenda (scelta assolutamente condivisibile ) è stata involontariamente accompagnata dalla rinuncia ad indagare gli aspetti più peculiari di questa storia trasformandola in una relazione d’amore come altre? In Popolizio l’assenza di giudizio morale lascia spesso il posto ad un’interessantissima ambiguità: ci si chiede cosa ci sia di vero in quello che racconta quest’uomo, se desidererà la figliastra con cui lo vediamo sgambettare fuori dalla scena alla fine dello spettacolo (la giovane Silvia Altrui). Ma talvolta l’ambiguità diventa in Popolizio l’ipertecnicismo di un virtuoso. Anna della Rosa si muove sulla scena con naturalezza e forza, è autentica e concreta anche nei momenti di lungaggine del testo, mai patetica e spesso ironica. Peccato che le manchi quella “stortura”, quella sporcizia che avrebbe potuto rendere più profonda la sua interpretazione ed eliminare la sensazione che talvolta affiora, di una ex ragazzina volitiva diventata donna nevrotica. Il sottoscritto non può fare a meno di pensare per un attimo a quando Carmen Maura diceva “quando ero piccola ho auto una relazione con papà” nella Legge del desiderio di Almodovar. Ma là vedevamo una donna irrecuperabilmente frantumata da quella “relazione”, qui vediamo un’adulta consapevole e arrabbiata. Encomiabile è la professionalità con cui entrambi gli interpreti resistono al vuoto di una regia che li lascia spesso soli con il testo (e alla pessima acustica del Piccolo teatro Studio), tutto quello che avviene sulla scena sembra scaturire da una tensione reale, al limite anche dell’improvvisato (cosa che però dà la sensazione di carenza di struttura).

Infine un commento personale, che esula dalla recensione. Per quanto lo spettacolo risenta talvolta di un eccesso di politically correct, rinunciando ad indagare la specificità della vicenda, è un piacere vedere per un’ora e mezza un uomo e una donna che sviscerano sulla scena le piaghe della loro reciprocità, lontano da urla politiche, lezioni di etica, satire anticontemporanee. Forse qualche artista pensa ancora che siamo, prima di tutto, esseri che desiderano e si scontrano con il proprio inconscio e la propria identità, prima che con gli slogan politici o i manifesti ideologici.

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