martedì 17 maggio 2011

Improvvisamente l’estate scorsa, di Tennesse Williams, regia di Elio De Capitani

Quando il classico non ce la fa a diventare contemporaneo

di Fernanda Soana

Lo dico subito, non sono una fan di Tennesse Williams, trovo che l’autore americano, rispetto ad alcuni suoi illustri colleghi, quali O’Neill o Capote, non sia riuscito mai a superare un certo noioso e superficiale intellettualismo, mescolato ad uno snobistico amore per l’opera lirica e il melò. Mi capita di divertirmi a questo insensato miscuglio di psicanalisi divulgativa, alla Eric Fromm per intenderci, Violetta di Traviata e tragedia greca, solo quando guardo i film tratti dalle sue opere, grazie alle grandi interpretazioni delle stars di Hollywood, alle magnifiche ricostruzioni; al contrario, quando da seria e pretenziosa spettatrice mi siedo a teatro, tale forma di intrattenimento letteraria mi si mostra in tutta la sua assurda improbabilità.

Il melodramma Improvvisamente l’estate scorsa ha come protagonista Catherine (qui al Teatro Puccini interpretata da una bravissima Elena Russo Arman che riesce perfino a commuovermi, tanto è alta la sua aderenza al personaggio, anche nel bruttissimo monologo finale, dove l’autore vorrebbe farci credere che nel punto di incrocio tra psicanalisi e mito, la catarsi e la guarigione dalla follia possono accadere). Insomma, Catherine sembra essere impazzita dopo aver accompagnato il cugino Sebastian in un viaggio durante il quale egli muore in circostante alquanto misteriose. La madre di Sebastian tenta disperatamente di mantenere salda e priva di ombre la figura del figlio defunto, in modo che sia ricordato quale grande poeta. Minaccia di lobotomizzare Catherine e negare l’eredità alla madre e al fratello di questa se non ritrae la orribile storia sulla morte di Sebastian. A questo scopo interviene uno psichiatra di un manicomio cittadino, attirato dalla ingente somma di denaro che la vedova donerà all’ospedale in caso si attuasse la lobotomia sulla nipote, ma l’onesto psichiatra (interpretato da un monolitco Christian Giammarini che non riesce a dare neanche un’ ombra di ambiguità al personaggio) inietta alla giovane un siero della verità che permette a Catherine di confessare la truculenta morte del cugino, smembrato e divorato da ragazzi indigeni da cui aveva cercato favori sessuali, e ne confuta la pazzia. La ragazza rimessa a nuovo dalla confessione torna alla sua vita. Evidente è la missione del testo: una critica alla società perbenista americana conservatrice, dove l’apparire non deve mai svelare l’essere.

L’opera, pur attingendo elementi dalla vita privata dell’autore - sua sorella infatti fu costretta dalla madre dominante a sottoporsi a lobotomia - non riesce a restituire una realtà, ma rimane confinata dentro le mura del “genere melodramma” dai toni acidi e allucinatori.

Sappiamo infatti che Williams negli ultimi anni della sua vita soffriva di paranoie, era certo che dietro ogni evento pubblico si nascondesse qualcosa di buio e oscuro, soffriva di persecuzioni, gli era morto l’amore della sua vita: Frank Merlo, viveva tra libri di Rilke, col ventaglio di Crane (suo amato poeta) e il ritratto di Lawrence e gli piaceva dire che la sua scrittura fosse antinaturalistica e iperbolica, perché non amava il minimale realismo tanto in voga in quegli anni. In effetti la sua scrittura fatica a vivere del realismo, ma fatica a vivere anche di antinaturalismo, perché di stampo melodrammatico. Una soap ben scritta, un Balzac divulgativo e “piacionamente” contemporaneo, oserei dire.

Bene quindi l’idea del regista De Capitani di affrontare il testo partendo dalla bella sceneggiatura del film di Mankiewicz adattata per lo schermo dallo stesso Williams con Georg Vidal, con la traduzione di Masolino D’Amico, molto scorrevole, piena di ritmo, diretta senza freni verso il pubblico. Bene anche l’idea di accentuare il carattere omosessuale dell’opera, che fu molto censurata nei dialoghi all’epoca della Legione della Decenza, negli anni in cui fu scritta e portata in scena e al cinema. Bene anche la collocazione spaziale ( con le corrette scene di Sala e gli eleganti costumi di Bruni): il giardino della villa, amplificato di suoni e luci sinistri e gelidi, si trasforma in un ambiente da museo delle scienze naturali quasi selvaggio e esso stesso inquieto, i personaggi vengono mostrati quasi come fossero animali impagliati nelle sale di zoologia, emettono suoni registrati come fossero strani uccelli (gli avvoltoi che mangiano le tartarughe polinesiane, episodio che colpisce la fantasia già malata di Sebastian, gli indigeni che si gettano sul suo corpo nel racconto di Catherine). Questa scelta sembra servire al recupero di una certa epoca mitica, ancestrale ma anche legata alla scoperta dell’inconscio (ormai fin troppo scoperto ai tempi di Williams): questo l’ obiettivo più importante dello spettacolo, ma resta senza svolgimento, non apre una vera e propria lettura originale del testo. Forse perché i suoni e le luci vengono fin troppo spesso usati, finendo così per sminuire il loro significato di astrazione del dramma e sottolineando l’impossibilità del testo di aspirare alla tragedia o anche solo alla classicità del dramma borghese. Ma il grosso problema dello spettacolo risulta essere proprio la recitazione, lasciata alla libera capacità degli interpreti, che, senza una guida sicura, si legano a stereotipi, a toni fintamente realisti e troppo convenzionali. Eccetto la brava Russo Arman, gli altri sembrano recitare un qualsiasi feulletton di un qualsiasi theatre boulevardier: grossolana la figura tratteggiata dalla madre di Cristina Crippa, priva di ritmo, sfumature, addirittura l’attrice, la sera in cui ho assistito alla rappresentazione, dimenticava battute o mangiava quelle dei suoi colleghi; statico e immobile lo psichiatra di Giammarini, genericamente incazzato il fratello interpretato da un Ribatto da gioventù bruciata, Antinori ricalca la recitazione di stampo filodrammatico e sopra le righe, caricaturale la doppia figura della suora-governante di Sara Borsarelli.

De Capitani, che è regista e attore pieno di talento e sensibilità introspettiva, sembra essersi adeguato al gusto popolareggiante del suo pubblico. Non mette più in discussione, non si mette più in crisi. Lo spettacolo va da solo: basta una bella collocazione, luci e suoni suggestivi e degli attori generici che non si occupano di risolvere nessun problema insito nel testo (e in questo testo nemmeno Einstein o Leonardo sarebbero riusciti a risolverli tutti) per suscitare consensi e applausi trionfali. La compagnia sembra aver smarrito la funzione di un teatro che pone problemi e domande. Se il testo è bello la domanda la pone il testo stesso, la regia e la recitazione quasi mai. Se il testo non è bello lo spettacolo, pur curato e affascinante nell’immagine, risulta inutile e di banale intrattenimento. Perché? La compagnia dell’ Elfo, a mio avviso, si è rifugiata nel consenso immediato e ha smesso di dirigere la sua vocazione verso l’analisi e l’uso del teatro come strumento d’indagine. La compagnia ha lo spazio più bello della città e l’energia per farlo, quale pigrizia li spinge a non approfondire?

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