sabato 22 ottobre 2011

Scuola Sbroc: Pezzoli e il teatro dell’accadere.

Le possibilità (e impossibilità) del teatro
di Fernanda Soana
E’ noto a tutti i teatranti italiani il lavoro di pedagogia teatrale che da molti anni la regista Cristina Pezzoli porta avanti con grande impegno e dedizione. Il suo è un lavoro che mescola realtà e palcoscenico, teatro e politica. La regista sembra volerci dire che solo un teatro che accade veramente, un teatro del “qui e ora”, un teatro senza paracadute e senza reti di protezione, senza struttura insomma, possa essere politicamente pericoloso. Inizia qualche anno fa il suo sodalizio artistico con la drammaturga Letizia Russo, con il bellissimo “Tomba di cani”. Le due perseguono insieme la ricerca di un modo di fare teatro sganciato dagli obblighi di produzione, dalla consegna di un lavoro finito e terminato, dalla partitura scenografica e attoriale, che costringe artisti e spettatori a seguire uno spettacolo di esecuzione tecnica, un teatro che Cristina Pezzoli ama definire morto.
Il suo metodo è molto semplice: chiamare attorno a sé e alla sua carismatica personalità un gruppo di giovani attori, lavorare insieme ad ognuno di loro, cercando di smantellare ogni loro certezza, ogni maschera, alla ricerca dell’azione vera, l’unica degna di essere portata sul palcoscenico. Affinché quest’azione possa realmente accadere, l’attore non deve prestabilire niente, deve solo affidarsi a ciò che succede in scena, mentre gioca con i suoi compagni. Si tratta quasi di un match di improvvisazione.
Al teatro Ciro Menotti ho assistito a due lavori della Pezzoli, il primo della durata di un’ora e mezza intitolato Scuola Sbroc, il secondo di un paio d’ore dal titolo Opera viva. Già questo titolo dimostra che ciò a cui assisteremo non è solo un lavoro, ma un’ideologia di lavoro, una presa di posizione del gruppo contro il modo di fare teatro tradizionale.
Partiamo dal primo lavoro. Scuola Sbroc parla di una classe di alunni scoppiati o “sbroccati” che polemizzano apertamente, e spesso in maniera aggressiva, con il Professor Livolsi (interpretato appunto da Paolo Livolsi). Durante l’ora di lezione però il Professore sbrocca più di loro, impugna una pistola e li costringe a confessare i segreti più oscuri della loro vita, tra sevizie e giustizialismi.
La regista apre lo spettacolo spiegandoci il tipo di lavoro a cui assisteremo: gli attori non hanno un testo da seguire, ma un canovaccio come gli attori della commedia dell’arte, sul quale i giovani interpreti sono liberi di creare il loro testo personale. E’ un lavoro sull’autorialità dell’attore. Bello quest’accostamento tra i suoi attori e i commedianti, se nonché mi piacerebbe ricordare che gli artisti della commedia dell’arte non improvvisavano mai, avevano sì un canovaccio, ma anche tutto un repertorio di parole, gesti, acrobazie, codici che sapientemente utilizzavano di sera in sera. L’improvvisazione non era proprio nei loro piani semplicemente perché non esisteva. La parola improvvisazione comincia a comparire nel linguaggio teatrale solo nel 900.
Perdonate questa noiosa precisazione, ma come dottoressa in Storia del Teatro, non potevo non farla. Il lavoro comunque ha spunti interessanti. I giovani attori veramente improvvisano ed è molto piacevole vedere come e quanto si ascoltano, come interagiscono con una certa efficacia alle provocazioni e alle situazioni presentate. Ma le situazioni ahimè sono troppe e troppo banali. La ricerca di un totalitarismo realistico fa perdere molta credibilità alle azioni stesse. Mi spiego, ho trovato implausibile che in un’ora e mezza potesse succedere tutta quella quantità di roba, i ragazzi litigano tra di loro, facendo scattare dei conflitti personali, poi litigano con il maestro (e fin qui tutto bene), poi il maestro tira fuori una pistola li obbliga a tirare fuori ombre che nemmeno uno psicanalista dopo 5 anni di analisi riuscirebbe a fare, e qui iniziano le incongruenze. Intanto la reazione alla pistola è alquanto inverosimile, la regista sembra aver terrorizzato gli attori a non essere mai fortemente teatrali, gli attori appaiono quindi preoccupati a fare sempre il meno possibile, risultando a volte indifferenti e poco stupiti (come in questo caso o ancora più evidentemente più tardi quando il professore taglierà le dita a quasi tutta la classe). Inoltre gli attori si spalleggiano a vicenda, si aiutano (che è un bene) ma questo non permette mai di andare a fondo ad una sola azione, preoccupati come sono, per restare vivi sulla scena, a non ripetere mai la stessa cosa e a cambiare continuamente ritmi e situazioni, finiscono nella trappola di risultare generici, retorici e poco veri. E’ come se ognuno di loro portasse in scena una decina di personaggi e quindi mai uno autentico. Il problema più serio però è da imputare alla regia: seguire pedissequamente la linea del realismo impedisce di entrare in altri piani naturali al teatro, come l’evocazione, la fantasia, il surrealismo. Il problema si presenta quando il maestro uccide gli allievi e loro resuscitano e uccidono a loro volta l’insegnante che resuscita, come a voler dimostrare l’impossibilità della vera morte a teatro. Così anche quando il Prof taglia le dita ai ragazzi, gli attori non riescono (nell’inverosimiglianza dell’azione) ad avere reazioni credibili (risultano sempre incazzati e piagnoni e mai inquietati, impauriti, stupefatti). Ripeto, non è un problema attoriale, ma registico. Servirebbe qui alla Pezzoli di credere maggiormente nelle possibilità del teatro, che è luogo anche della fantasia, dell’immaginazione, della forma e della struttura. Qui, una maggiore strutturazione del momento, utilizzando gli strumenti adatti ad accedere a piani di racconto teatralmente complessi, avrebbe fortemente aiutato la fruizione. Rispetto fortemente la parte pedagogica della Pezzoli, ho dei seri dubbi che l’ideologia (o utopia) del suo lavoro possa colmare registicamente evidenti mancanze.
Mi piacerebbe citare i generosi interpreti, ma il Teatro Ciro Menotti, come sempre, è avaro di fogli di sala, presentazioni della compagnia, che mi avrebbero permesso di citare i nomi degli interpreti, e mi scuso con loro e li applaudo anche da queste pagine.
Su l’altro lavoro spendo poche parole: tratta di un viaggio di galeotte europee su una nave-prigione che le porta in Australia, durante la colonizzazione degli inglesi del nuovo continente. Non aveva senso spingere un folto numero di attrici a presentarsi ad un pubblico pagante con improvvisazioni filodrammatiche, senza capo ne coda, mettendo in seria difficoltà sia le giovani che cercavano di rendere, per quanto potessero, drammatiche e necessarie le azioni che portavano in scena, e mettendo in serio imbarazzo il pubblico in sala ( o almeno, io ero molto a disagio) che non sapeva se dovesse seguire una traccia di storia personale delle attrici o le assurde pretese della regista che, per mancanza di tempo, le spingeva ad accelerare le situazioni, interromperle, passare ad altro,.... ma a cosa e a chi serviva tutto ciò?

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