Piccolo teatro di Milano teatro Strehler.
La storia è nota: Giulio Cesare di ritorno dalla Gallia entra a Roma nel 49 a.C. rompendo l’accordo con il senato che impedisce ai comandanti militari di varcare il confine della città con le truppe. Entra da vincitore dopo avere sottomesso i Galli- nemici imbattibili-, e in poco tempo diviene dittatore, scavalcando la divisione dei poteri che la repubblica romana imponeva. Un sovrano amato e illegalitario, come la storia ne ha consegnati tanti.
Shakespeare fa iniziare la sua tragedia il giorno prima delle idi di marzo del 44 a. C., data dell’omicidio di Cesare ad opera dei congiurati, i senatori e compagni che denunciano il rischio monarchico in nome della democrazia, e la fa terminare due anni dopo, alla fine della battaglia di Filippi, nella quale i cesaricidi vengono sconfitti e pubblicamente condannati dagli eredi morali di Cesare, Antonio e Ottaviano.
C’è qualcosa di fatale e fascinoso in questo capitolo della storia di Roma, vista con la lente dei secoli a venire. Il tiranno viene deposto in nome della giustizia da chi verrà a sua volta deposto in nome della giustizia. È la storia del potere che si perpetua e si rinnova da millenni, in forme e in luoghi sempre diversi.
L’uccisione di Cesare esplicita la nascita della crisi dello stato, i valori antichi vengono sostituiti, la paura è il sentimento più diffuso, l’insicurezza genera deformità egoiche, le parole degli indovini si ergono a Verbo.
Questi i fatti.
Il testo di Shakespeare, lavorato dalla penna di Renato Gabrielli, che cura l’adattamento drammaturgico, esalta la lucidità di una parola che confonde e convince, ma non può essere né autentica né portatrice di una qualche verità. Non c’è da parte della regia un tentativo di attualizzare o collocare nel passato la tragedia: quello che è accaduto a questi uomini e queste donne avviene da secoli, con abiti, sfondi e lingue diverse. Gli abiti gessati blu e rossi, le divise militari (i costumi sono di Margherita Baldoni), i microfoni e i sipari di velluto rosso, le statue e le macchie di sangue, potrebbero raccontare una Roma senza tempo, una Germania nazista come una campagna elettorale americana, un golpe sudamericano come la crisi della Democrazia Cristiana (bagnata dal sangue dei suicidi) all’alba della Seconda Repubblica Italiana.
Si parla di un potere in crisi, e la crisi ha le sue ricorrenze.
Rifici pone un’attenzione particolare al tema dell’occulto, spesso per nulla considerato nelle letture del Giulio Cesare. L’indovino della prima scena dello spettacolo (morboso, erotico e magnetico, oltre che profondamente inconscio), ricorda un film di Lynch, le first lady sognano presagi negativi e raccontano i loro sogni, Bruto stesso, il cesaricida più noto, prima di morire si affida alle sensazioni di un presagio. Ma l’occulto non è solo mistificazione. Se le colonne dello stato non reggono non c’è legge a cui affidarsi se non l’insondabile natura. E i presagi si avverano, il mondo si rovescia per poi tornare uguale a se stesso. Perché c'è nel potere qualcosa id fatale e di naturale, di contraddittorio e umanissimo, che è difficile avere il coraggio i vedere e l'intelligenza di saperlo comunicare.
Sull’intraducibile assonanza Rome is a Room ruota il lavoro scenografico. Lo spazio si apre, si muove, è lo studiato pulpito da cui gli oratori tessono i loro discorsi e mistificano la realtà, è il terreno di scontro di forze armate o invisibili, è lo spazio angusto del labirinto interiore. Marco Rossi struttura con semplicità- e grande dispiegamento di mezzi- uno spazio mobile che si trasforma seguendo le necessità delle caleidoscopiche facce del potere.
Daniele d’Angelo, compositore delle musiche di scena, tratteggia con i suoi pezzi musicali le complesse reti del mondo politico, dalle musiche di propaganda al suono interiore che produce la paura o l’eccitazione, alle voci del consenso o del dissenso popolare, al battito del sogno sul dormiente.
Gli attori padroneggiano questo sistema con eleganza, segno che se un regista ha le idee chiare gli attori fanno bene il loro lavoro. A cominciare da Massimo de Francovich, un Cesare adulto e consapevole che sa di dover morire e non ostacola la sua discesa, che muore danzando tra le braccia dei congiurati, sereno e dignitoso. Non citerò tutti gli attori, tanti e (quasi tutti) bravi.
Tra i degni di nota Marco Foschi (Bruto), Sergio Leone (un umanissimo Cassio), Massimiliano Speziani (l’indovino e il poeta Cinna). È bello inoltre vedere attori eccellenti mettere il loro lavoro a servizio di ruoli di minor peso (come la raffinata Calpurnia di Giorga Senesi).
Notevole e imponente, infine, il lavoro di luci di A.J. Weissbard.
Nulla è lasciato al caso, tutto è chiaro e leggibile, e contemporaneamente il mistero non viene violato. Ci sono, nelle tre ore di spettacolo, dei passaggi meno risolti e meno impeccabili di altri, affrontati coraggiosamente da un regista che si assume la responsabilità di fare delle scelte. Una regia intelligente ma mai saccente, umana ma senza commiserazione, ironica senza satira.
Questo Giulio Cesare è uno dei rari- ma esistenti- spettacoli che restituiscono dignità allo spettatore, che non banalizzano e non denunciano, ma evocano in modo semplice la complessità del potere degli uomini, tanto giudicato e denunciato da essere diventato un tabù. E parlarne in un modo così umano mi pare più moralmente etico che criticarlo ponendosene all’esterno, e facendolo diventare una storia di cattivi e buoni.
Scriverei ancora, per il semplice piacere di dipanare i segni dell’equipe artistica, ma mi fermerò, per non rovinarvi il gusto di decifrare la chiara e ricca rete di segni che Rifici propone al pubblico, che forse non hanno nemmeno bisogno di essere spiegati.