lunedì 16 aprile 2012

IL FASCINO DEL POTERE, TRA INCONSCIO E NATURA

Giulio Cesare di Shakespeare, regia di Carmelo Rifici,

Piccolo teatro di Milano teatro Strehler.

di Cosimo Attico

La storia è nota: Giulio Cesare di ritorno dalla Gallia entra a Roma nel 49 a.C. rompendo l’accordo con il senato che impedisce ai comandanti militari di varcare il confine della città con le truppe. Entra da vincitore dopo avere sottomesso i Galli- nemici imbattibili-, e in poco tempo diviene dittatore, scavalcando la divisione dei poteri che la repubblica romana imponeva. Un sovrano amato e illegalitario, come la storia ne ha consegnati tanti.

Shakespeare fa iniziare la sua tragedia il giorno prima delle idi di marzo del 44 a. C., data dell’omicidio di Cesare ad opera dei congiurati, i senatori e compagni che denunciano il rischio monarchico in nome della democrazia, e la fa terminare due anni dopo, alla fine della battaglia di Filippi, nella quale i cesaricidi vengono sconfitti e pubblicamente condannati dagli eredi morali di Cesare, Antonio e Ottaviano.

C’è qualcosa di fatale e fascinoso in questo capitolo della storia di Roma, vista con la lente dei secoli a venire. Il tiranno viene deposto in nome della giustizia da chi verrà a sua volta deposto in nome della giustizia. È la storia del potere che si perpetua e si rinnova da millenni, in forme e in luoghi sempre diversi.

L’uccisione di Cesare esplicita la nascita della crisi dello stato, i valori antichi vengono sostituiti, la paura è il sentimento più diffuso, l’insicurezza genera deformità egoiche, le parole degli indovini si ergono a Verbo.

Questi i fatti.

Il testo di Shakespeare, lavorato dalla penna di Renato Gabrielli, che cura l’adattamento drammaturgico, esalta la lucidità di una parola che confonde e convince, ma non può essere né autentica né portatrice di una qualche verità. Non c’è da parte della regia un tentativo di attualizzare o collocare nel passato la tragedia: quello che è accaduto a questi uomini e queste donne avviene da secoli, con abiti, sfondi e lingue diverse. Gli abiti gessati blu e rossi, le divise militari (i costumi sono di Margherita Baldoni), i microfoni e i sipari di velluto rosso, le statue e le macchie di sangue, potrebbero raccontare una Roma senza tempo, una Germania nazista come una campagna elettorale americana, un golpe sudamericano come la crisi della Democrazia Cristiana (bagnata dal sangue dei suicidi) all’alba della Seconda Repubblica Italiana.

Si parla di un potere in crisi, e la crisi ha le sue ricorrenze.

Rifici pone un’attenzione particolare al tema dell’occulto, spesso per nulla considerato nelle letture del Giulio Cesare. L’indovino della prima scena dello spettacolo (morboso, erotico e magnetico, oltre che profondamente inconscio), ricorda un film di Lynch, le first lady sognano presagi negativi e raccontano i loro sogni, Bruto stesso, il cesaricida più noto, prima di morire si affida alle sensazioni di un presagio. Ma l’occulto non è solo mistificazione. Se le colonne dello stato non reggono non c’è legge a cui affidarsi se non l’insondabile natura. E i presagi si avverano, il mondo si rovescia per poi tornare uguale a se stesso. Perché c'è nel potere qualcosa id fatale e di naturale, di contraddittorio e umanissimo, che è difficile avere il coraggio i vedere e l'intelligenza di saperlo comunicare.

Sull’intraducibile assonanza Rome is a Room ruota il lavoro scenografico. Lo spazio si apre, si muove, è lo studiato pulpito da cui gli oratori tessono i loro discorsi e mistificano la realtà, è il terreno di scontro di forze armate o invisibili, è lo spazio angusto del labirinto interiore. Marco Rossi struttura con semplicità- e grande dispiegamento di mezzi- uno spazio mobile che si trasforma seguendo le necessità delle caleidoscopiche facce del potere.

Daniele d’Angelo, compositore delle musiche di scena, tratteggia con i suoi pezzi musicali le complesse reti del mondo politico, dalle musiche di propaganda al suono interiore che produce la paura o l’eccitazione, alle voci del consenso o del dissenso popolare, al battito del sogno sul dormiente.

Gli attori padroneggiano questo sistema con eleganza, segno che se un regista ha le idee chiare gli attori fanno bene il loro lavoro. A cominciare da Massimo de Francovich, un Cesare adulto e consapevole che sa di dover morire e non ostacola la sua discesa, che muore danzando tra le braccia dei congiurati, sereno e dignitoso. Non citerò tutti gli attori, tanti e (quasi tutti) bravi.

Tra i degni di nota Marco Foschi (Bruto), Sergio Leone (un umanissimo Cassio), Massimiliano Speziani (l’indovino e il poeta Cinna). È bello inoltre vedere attori eccellenti mettere il loro lavoro a servizio di ruoli di minor peso (come la raffinata Calpurnia di Giorga Senesi).

Notevole e imponente, infine, il lavoro di luci di A.J. Weissbard.

Nulla è lasciato al caso, tutto è chiaro e leggibile, e contemporaneamente il mistero non viene violato. Ci sono, nelle tre ore di spettacolo, dei passaggi meno risolti e meno impeccabili di altri, affrontati coraggiosamente da un regista che si assume la responsabilità di fare delle scelte. Una regia intelligente ma mai saccente, umana ma senza commiserazione, ironica senza satira.

Questo Giulio Cesare è uno dei rari- ma esistenti- spettacoli che restituiscono dignità allo spettatore, che non banalizzano e non denunciano, ma evocano in modo semplice la complessità del potere degli uomini, tanto giudicato e denunciato da essere diventato un tabù. E parlarne in un modo così umano mi pare più moralmente etico che criticarlo ponendosene all’esterno, e facendolo diventare una storia di cattivi e buoni.

Scriverei ancora, per il semplice piacere di dipanare i segni dell’equipe artistica, ma mi fermerò, per non rovinarvi il gusto di decifrare la chiara e ricca rete di segni che Rifici propone al pubblico, che forse non hanno nemmeno bisogno di essere spiegati.

martedì 21 febbraio 2012

IL TEATRO DEL SENTIRE e la morte del pensiero

di Fernanda Soana

Giorni fa leggevo un articolo di Renato Palazzi su Myword, nel quale lo stimato critico denunciava la perdita della centralità della città di Roma in quanto centro nevralgico della cultura teatrale nazionale, a vantaggio di una Milano in rinascita, grazie al fervore creativo dei suoi tanti teatri e compagnie, fatta eccezione per il Piccolo Teatro, nel quale Palazzi vede una cristallizzazione di intenti e di idee.

Sono alquanto d’accordo con lui, anche se non posso almeno non notare che il Piccolo in questi anni ha anche prodotto dei lavori di una certa importanza di Pasqual, Rifici e Senigaglia. Nonostante questo, è vero che il Piccolo abbia comunque perso la sua vocazione; è un teatro che non investe né in testi, né in spettacoli, né in registi, né in ospitalità di rilievo.

Sempre in quell’articolo, Palazzi citava i premi Ubu milanesi fautori della rinascita: tra i quali Federica Fracassi di Teatro I e La compagnia dell’elfo. Guarda caso artisti totalmente agli antipodi dal Piccolo teatro. Artisti che hanno sviluppato un genere teatrale pop, un teatro nazionalpopolare, di una certa solidità e qualità, un teatro basato molto sull’empatia tra gli attori e il loro pubblico, e su un utilizzo della tecnologia (musica, luci, video, pop art) che, come ci ha insegnato il grande Carmelo Bene, sono gli strumenti contemporanei che hanno sostituito gli ingredienti dei melodramma: il genere nazionalpopolare dell’ottocento. Strumenti che portano lo spettacolo al cuore del pubblico: voci amplificate, microfoni, videocamere incollate alle facce degli attori, neon, led, nudi esibiti e quant’altro, sono i mezzi utilizzati oggi dal teatro per varcare la soglia cutanea dello spettatore.

Il Piccolo, al contrario, nei suoi anni d’oro, con i grandi lavori su Brecht di Strehler e poi con Ronconi, è sempre stato un teatro con la vocazione al pensiero, lontano, almeno negli intenti, da un teatro à la page. Degli effetti sul pubblico di un teatro pop e alla moda se ne erano già accorti i registi tedeschi anni fa, tanto da riuscire a imporre una mainstream avanguardia all’intera Europa.

Il teatro tedesco però ha attori padroni di una grammatica che non consente loro di svalutare il linguaggio teatrale, la lingua tedesca vive di regole che non possono essere trasgredite. L’italiano è una lingua bugiarda, equivoca, piena di inciampi e trappole, una lingua artificiale frutto essa stessa di una continua sperimentazione. Gli inglesi, dal canto loro, protezionisti come possono essere solo gli isolani, di fronte a questa ondata di germanizzazione del teatro, si sono chiusi a riccio, mantenendo salda la loro raffinatissima identità teatrale, basata su una solida tradizione, mentre i francesi, che hanno una lingua più legata alla discussione, alla filosofia e alla conversazione che al dialogo e al rapporto, sono sempre stati dei grandi importatori di teatro piuttosto che degli esploratori ed esportatori. Non a caso l’inglese Peter Brook ha fatto a Parigi la sua fortunata ed notevole carriera, così come l’americano Wilson.

Torniamo al Piccolo, un teatro che nel passato guardava alla Germania come a un punto di riferimento. In questo stravolgimento delle forme di comunicazione è chiaro che il Piccolo non ha saputo come trasformarsi, non avendo nel suo organico menti dirigenziali capaci di mantenere solida la propria vocazione al pensiero da controbilanciare a tutta una serie di artisti che si muovono nel “teatro del sentire”.

Non solo a Milano quindi, ma praticamente in tutta Europa, eccetto che per la Gran Bretagna, si è spostato l’asse del problema: se il teatro nel 900 è stato un luogo della riflessione, oggi è il luogo dell’emozione, dove l’obiettivo è colpire il pubblico al cuore. Non è mio compito giudicare il cambiamento, ma i miei frequenti viaggi teatrali mi hanno portata a questa considerazione. Il pericolo, o l’avvisaglia, già l’aveva preannunciato il drammaturgo Botho Strauss più di dieci anni fa, denunciando nel teatro tedesco la perdita del senso e dall’analisi logica, parlando di un teatro non più basato sul concetto, sul testo, bensì sull’immagine, sull’emozionalità: questo, sempre secondo l’autore, avrebbe condotto gli artisti verso un teatro di forma, dove l’immagine emozionale avrebbe sostituito velocemente l’emozione cerebrale, creando un grande equivoco tra emozione e sentimento e una perdita di contenuto molto pericolosa.

Guarda caso anche in Italia i palcoscenici (soprattutto quelli festivalieri e di nicchia) sono pieni di spettacoli di performers, c’è un ritorno ad una sperimentazione alquanto anni settanta, un ritorno dei monologhi, un ritorno ad un teatro più dionisiaco che apollineo, un teatro abbassato nel senso e alzato nella sensazione.

E’ un teatro che si muove lontano dal testo, ma che fa della creatività autoriale dell’attore e dell’improvvisazione la sua matrice. E’ un teatro lontano dall’interpretazione, legato ad un procedimento maggiormente solitario dell’artista, che torna ad avere un contatto più diretto con il pubblico.

Anche grandi registi, come Thomas Ostermeier, non si sono lasciati sfuggire la tentazione di sorpassare gli intralci del testo: i suoi ultimi Shakespeare non si pongono problemi di interpretazione, tentano invece di scavalcare il problema del testo buttandosi a capofitto in una contemporaneità e attualizzazione capaci di arrivare immediatamente al pubblico. Infarciti di situazioni pseudomoderniste, questi spettacoli, slegati dalla materia letteraria, catalizzano lo spettatore grazie alla forza delle loro immagini. Gli spettacoli di cui parlo sono esteticamente molto belli, ma spesso privi di profondità e quasi mai risolvono problemi di semiotica teatrale. Il segno, legato ai meccanismi del pensiero, quindi all’inconscio, alla fantasia e anche al mistero, lascia posto all’immagine, che è evidentemente di matrice emozionale.

Forse la critica teatrale e letteraria ha cominciato ultimamente a snobbare un certo teatro legato al testo perché ha perso gli strumenti di analisi, e si è lasciata trasportare da un sentimento comune: la semplificazione del nostro tempo.

La nostra epoca è alquanto lontana dallo studio della semiotica, del segno e dello spazio. E’ una società non illuminata, ma caotica, persa nella paura della crisi e dalla mancanza di una speranza nel futuro (economica? filosofica?). Allontanarsi da “io sono ciò che penso” per “Io sono ciò che sento” significa sostituire il concetto con l’informazione. L’informazione è più semplice, è sintetica, arriva subito al cuore senza incontrare molti ostacoli nel suo cammino. Da una parte questo procedimento ha creato un esponenziale ottenimento delle notizie, reazioni globalizzate di fronte agli eventi, situazione inimmaginabile solo dieci anni fa, dall’altra ha svalutato il linguaggio. Anche l’arte si è adeguata a questo comune sentire e ha sciolto il suo contratto con il contenuto, cadendo però in una trappola alquanto pericolosa: ha equivocato il contenuto con l’immagine, il suono, la luce e la carnalità dell’attore. Ha confuso il contenuto con il contenente, finendo col sovrapporli. Il contenuto prevede invece qualcosa che sta dentro il contenitore, porta allo scoperto i legami sotterranei fra gli spazi bianchi che separano le parole, crea possibilità, pericoli, interferenze: in sostanza svela il pensiero complesso dell’essere umano che si complica ulteriormente appena si rapporta ad un altro essere umano.

Forse per questo i monologhi piacciono, perché non hanno bisogno dell’altro, del rapporto. E ancor di più piace l’attore che si rapporta direttamente al pubblico. Perché il pubblico non può parlare, può solo “sentire”. E l’artista non ha il problema di creare relazioni complesse in scena, potendosi al contrario concentrare con una relazione semplice, quella tra lui e il suo spettatore.

Ultimamente mi è capitata l’occasione di vedere alcuni lavori di pittura di artisti africani, con mia grande sorpresa (e ignoranza), mi sono trovata davanti a lavori figurativi di notevole spessore politico (l’arte figurativa è praticamente scomparsa nel vocabolario dell’artista occidentale: la figura per la pittura, sta come il testo per il teatro). Mi è venuto da pensare che un neo rinascimento e un consequenziale illuminismo stiano avvenendo in altri continenti, fuori dalla nostra impaurita Europa, nei luoghi dove oggi il pensiero è una forte arma politica.

Questo mi ha rassicurata da una parte e amareggiata dall’altra: perché il Teatro possa ritrovare la sua vocazione al pensiero necessita di qualcosa di più terribile della crisi economica che stiamo vivendo? Ci vuole una gravissima frattura sociale perché artisti in via d’estinzione possano ritrovare una loro casa? Il teatro del pensiero viaggia sempre accanto alle inquietudini più nere? Brecht, Botho Strauss e Heiner Mùller per i tedeschi, Calvino e Pasolini per gli italiani sono il frutto di grandi capovolgimenti politici, gravi crisi, orribili guerre. E’ terribile constatare che la Ragione torna ad imporsi solo dopo che il caos ha distrutto ogni cosa.

lunedì 6 febbraio 2012

ANTROPOLAROID, di e con Tindaro Granata

Granata e il coraggio di farsi racconto.

di Cosimo Attico

Al teatro Elfo Puccini assisto al lavoro di Tindaro Granata. Attirato dal titolo più che dal nome dell’attore (fortunatamente ignoto, in una scena, quella milanese, dove i monologhi sono spesso l’autocelebrazione dell’attore di fama che si celebra di fronte al suo pubblico) mi siedo davanti alla scena vuota: una sedia, un telo bianco.

Testo regia e interpretazione sono di Granata. Sono curioso.

La trama è immediatamente svelata dagli intenti del narratore: vi racconterò la storia della famiglia siciliana da cui provengo, niente di pretenzioso, nessun desiderio di denuncia, semplicemente una storia conosciuta a fondo da chi parla. Dal bisnonno che si uccide perché gli viene diagnosticato quel male per cui si muore “chianu chianu”, alla nonna che si innamora del nonno in una sala da ballo, al padre che tenta la fortuna in svizzera, a Granata stesso, che lascia la Sicilia per fare l’attore a Roma. Passa tutto il novecento dalla lente autobiografica di Tindaro Granata. Un incastro drammaturgico ben ideato che non ci lascia il tempo di interrogarci sulla natura dell’operazione: ANTROPOLAROID è uno spettacolo che parla di Mafia? No. Parla della storia di una famiglia? Non solo. Ma nella vicenda di una famiglia si vedono in tralice i mondi sociali, storici, geografici che il nostro paese inconsapevolmente vive e subisce.

La scrittura è portata attraverso una lingua siciliana modulata attraverso gradi di intensità: da momenti in cui confina con l’italiano ad altri in cui sfoga nel grammelot.
La storia di Tindaro entra nella Storia nel momento in cui si nomina per la prima volta la connivenza- obbligata, sofferta e subita- con il potere mafioso. Sempre raccontato con la leggerezza e il coraggio dell’ironia intuiamo il profondo legame di una terra con il suo potere più devastante, quello che obbliga chi se ne va, chi sceglie di non subire, a nominare i fatti e non chi li ha compiuti, quel potere che porta al suicidio, alla disperazione, a smettere di porsi domande.

Quello che convince dello spettacolo di Granata è la qualità dell’interpretazione, assolutamente personale e incantata. Non è un racconto viziato dalla copia di altri, assomiglia piuttosto al “come se” dei giochi infantili, il “facciamo che io ero” dei bambini. E questa necessità diventa magnetica per il pubblico, Granata si trasforma sulla scena, senza interpretare, senza costruire personaggi, "è" di volta in volta le persone che servono alla sua storia. E nella parola di Granata intuiamo come a lui sono arrivati quei racconti: il Cunto di una famiglia che si tramanda di padre in figlio, il melò delle storie d’amore dei nonni trasmesse ai nipoti, i tentativi di decriptare il groviglio complesso di suoni ascoltati e non compresi, la gestualità ripetuta e incompresa delle abitudini.

Il lavoro sul gesto è curato, preciso, come tutti gli elementi del lavoro: il gesto è rituale, talvolta astratto, si sostituisce alla parole per raccontare l’irraccontabile, è l’emozione che la voce non sa dire, è studiato ma mai estetico. Anche le scelte musicali si inseriscono nello stesso sistema di scelte: sono funzionali al racconto, emozionanti, semplici, conosciute e riconoscibili.

Ecco, mi dico, un bell’esempio di un attore che cerca una strada personale per usare i suoi mezzi espressivi, nessuna tecnica manifesta, nessuna furba invenzione scenica, solo racconto. I limiti infatti sorgono dove il racconto si fa funzione drammaturgica: i pezzi in cui l’attore dismette le sue modalità narrative per parlare in italiano, al pubblico, come un narratore, sono i momenti più fragili del lavoro, meno adattati alle specificità espressive dell’interprete, meno presonali. Anche dal punto di vista drammaturgico ci sono momenti meno riusciti, ripetizioni di alcuni frammenti di testo, troppe per essere inconsapevoli, ma a mio parere non sempre necessarie.

La forza di questo spettacolo risiede nella sua necessità, nell’assunzione di una modalità assolutamente personale di racconto, nella ricerca dell’incanto, nel recupero di una poesia estranea a molta scena contemporanea. Granata non punta a denunciare un sistema di cui è stato parte e vittima, in cui è cresciuto, tanto più che non si propone di nominare esponenti della mafia ancora ignoti alle indagini, non ci dice sul mondo mafioso qualcosa che ancora non sappiamo.

ANTROPOLAROID assomiglia alla vita: non si può sperare di capirne il senso dall'interno, va solo lasciata scorrere, e nello scorrere chi ci vede vivere può fare la sintesi e le riflessioni che dall'interno sono impossibili, o fasulle. Granata scatta la Polaroid. Sta al pubblico interpretare l'immagine.

La provocazione e l’innovazione di Granata stanno a mio parere proprio nei momenti più semplici: ci ricorda che dove c’è una storia, e dove qualcuno è in grado di raccontarla, c’è la possibilità di riscatto di una collettività. Quella collettività che a fine spettacolo batte le mani, commossa dall’effetto catartico che il teatro può ancora avere.

E infine me ne vado dalla sala rassicurato, pensando che esiste ancora un teatro che mette in crisi le proprie certezze per dare voce alla propria personalissima e irresistibile necessità di raccontare.